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Channel: trainspotting – Metal Skunk
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Cupio dissolvi: BLIND GUARDIAN – Beyond The Red Mirror (Nuclear Blast)

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Questo disco è una merda. Ho voluto togliermi subito il dente anche se questo incipit, oltre a non essere elegantissimo, non è neanche lontanamente esaustivo per spiegare quanto faccia schifo Beyond The Red Mirror. Avrei voluto utilizzare l’epitaffio, sublime, con cui Matteo Cortesi salutò l’uscita di Lulu anni fa:

esiste e non ci puoi fare un cazzo

ma i Blind Guardian del 2015 non meritano neanche un tale apice lirico: meritano solo insulti, bestemmie e abbondanti pallonate di merda in faccia. Beyond The Red Mirror fa talmente schifo che non si trovano le parole giuste per far comprendere davvero quanto faccia schifo. In confronto il precedente era un capolavoro e comunque non lasciava prevedere un tracollo improvviso del genere. Ci ho provato ad ascoltarlo fino allo sfinimento, a cercare sfumature nascoste e sottili rimandi, ci ho provato a convincermi che in realtà questo non fosse un pacco di maleodorante letame lasciato a fermentare sotto al mio letto; ma che meritasse un altro ascolto, e ancora un altro; ma più lo ascolto e peggio è; e mi sento Richard Benson quando, durante una puntata del suo programma tv, presentò Bananas dei Deep Purple dicendo “Mah, è un disco da riascoltare molte volte, è un po’ ostico, sicuramente con gli ascolti crescerà” per poi presentarsi nella puntata della settimana dopo bestemmiando e gridando “QUESTO DISCO E’ UNA MERDA! NON VALE UN CAZZO! E’ BUONO SOLO SE TE LO MANGI”, e quindi mangiarsi il booklet, in diretta. Fortunatamente ormai la musica la sento quasi sempre su Spotify quindi col cazzo che gli do pure la soddisfazione di farmi venire il mal di pancia a mangiare la loro odiosa copertina fantasy sbrilluccicante da bimbiminchia. Esiste e non ci puoi fare un cazzo, già, e vaglielo a spiegare che erano il mio gruppo preferito, e lo sono tuttora se consideriamo la loro discografia fino a un certo punto, mentre adesso sono finiti nel peggior modo in cui potevano finire: una caricatura di sé stessi, ma non dei migliori sé stessi, eh: perché la caricatura dei migliori Blind Guardian sono al massimo i Persuader, e i Persuader in confronto a questa scarica di diarrea di disco sono i Black Sabbath del periodo 1970-73; Beyond The Red Mirror è una caricatura dei peggiori Blind Guardian, o più precisamente la distorsione e degenerazione di quegli elementi pomposi e iper-corali introdotti con Nightfall In Middle-Earth e A Night At The Opera. Dischi che io adoro, sia chiaro, e su cui ho versato innumerevoli lagrime e che probabilmente a breve dovrò pure ricomprare da quanto li ho consumati. Però appunto Beyond The Red Mirror ne è una degenerazione, senza idee, senza spunti, senza passione, senza un cazzo di un cazzo di niente che non sia depressione e mancanza di voglia di lottare perché una vita che trasforma i Blind Guardian in un gruppo di merda è una vita che non merita di essere vissuta. 

il NULLA

il NULLA

Esempio. L’inizio di Ashes of Eternity è un plagio dell’inizio di Precious Jerusalem. Contestualizziamo la cosa: Precious Jerusalem è l’opener di ANATO, ed era a sua volta un plagio dell’inizio di Refuse/Resist, che come chiunque saprà è l’opener di Chaos AD dei Sepultura. Da dove devo cominciare a bestemmiare? Dal fatto che, porca puttana, se devi plagiare una tua canzone quantomeno plagia, che so, Welcome To Dying; o quantomeno non plagiare una canzone di apertura di un altro disco, che è impossibile che la gente non se la ricordi; o quantomeno non plagiare una canzone che già plagiava un’altra canzone, che peraltro TUTTI conoscono. Il singolo era pessimo, ma avevo fatto orecchie da mercante perché già era capitato con A Twist In The Myth che il singolo fosse la canzone di gran lunga peggiore del disco; qua invece non dico che sia la migliore (non esiste una canzone migliore perché fanno tutte schifo, ma i pochissimi spunti discreti di tutto l’album si trovano in Prophecies),  però c’è da dire che il singolo era solo una frociata happycore zumpappà trullallero zumpappà che ti dimenticavi dopo cinque secondi, mentre nell’album c’è roba ben peggiore. Verso la fine del disco ci sono degli esempi di come i Savatage abbiano fatto danni irreparabili in tutti quelli che non hanno il senso della misura e della decenza e pensano che buttarla sulla metal opera sia una buona idea. Sarebbe anche fuori luogo parlare dei Savatage però, perché qui il contesto è quello del symphonic metal degli anni 2000, quella roba indifendibile e totalmente contraria al comune senso del pudore come Epica, ultimi Nightwish e chissà che cazzo d’altro, roba che per l’appunto ascoltano solo i ragazzini, le ragazzine e quelli che vanno al concerto degli Slipknot nel 2015 pensando che siano la cosa più trasgressiva e cazzofiga della storia. Questo è l’ambito in cui si muovono i Blind Guardian adesso. Non c’è più magia, fiaba, crepuscolo, epica, mitopoiesi: solo magliette colorate a 25 euro della Nuclear Blast, loudness war, facce cattive da mettere in copertina su Metal Hammer Germany, e vaffanculo a tutti noi che su Somewhere Far Beyond abbiamo forgiato il nostro carattere, la nostra weltanschauung e la nostra sensibilità. Non c’è più niente. Esiste e non ci puoi fare un cazzo: è l’inanità della vita, la vacuità della nostra stessa esistenza: siamo soli, scagliati fuori in una fredda oscurità senza fine, senza appigli, senza riferimenti, senza certezze, senza nulla in nessuna direzione; le cose succedono, ci piovono addosso, e intanto i nostri simboli finiscono gettati nella polvere, banalizzati, fraintesi, calpestati da un inesorabile sprofondamento nella mediocrità, usati come oggetti di marketing in colossali tour da leggenda a supporto di dischi sempre più brutti e, ancora peggio, di rimasterizzazioni e rifacimenti di ciò che era talmente perfetto da non necessitare di nulla più. Il remake di The Bard’s Song – In The Forest grida ancora vendetta e forse è stato quello il momento preciso in cui avevamo capito che stava finendo tutto a puttane. In Beyond The Red Mirror la chiusura è affidata a Grand Parade, il cui titolo dice tutto: un climax orgiastico di orchestrazioni posticce, cori sfiatati e pretenziosissima grandeur in cui si ritrova un po’ di tutto quello che fa schifo nel metal europeo. Il peggior pezzo dei Blind Guardian di sempre. Ora lo scioglimento è un atto dovuto nei confronti di chi vi ha davvero amati; perché noi potremo pure non farci un cazzo, ma voi sì, voi potete porre fine a questa inutile e sadica agonia. Aspettiamo speranzosi. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)



Gli ENSLAVED sono più forti delle tasse e della morte

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Di immancabile e puntuale, si usa dire, ci sono solo le tasse e la morte. Un senso positivo alla questione si può trovare proprio con gli Enslaved, che da venticinque anni pubblicano dischi a ritmo serrato senza mai, MAI, andare fuori fuoco. Il fatto che nel frattempo abbiano cambiato più volte radicalmente genere, rimanendo sempre attitudinalmente coi piedi per terra pur sviluppando un approccio per così dire colto alla materia,  li rende ormai un unicum in una scena estrema sempre più asfittica e autocelebrativa. Il loro prossimo disco si chiamerà In Times e sarà nei negozi il 6 marzo; il pezzo scelto per aprirne la strada è Thurisaz Dreaming, di cui purtroppo è stata divulgata solo una versione tagliata (5 minuti a fronte degli 8 che troveremo sull’album). Iniziamo a prendere appunti per la playlist di fine anno.  


Birra del discount, campane a morto e nuovo pezzo dei PALLBEARER

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Ci tengo a scrivere due righe sui PALLBEARER perché sono la mia ultima scoperta musicale in ordine di tempo. Li ho scoperti per caso il mese scorso, quando Ciccio li ha messi come sottofondo mentre degustavamo una raffinata lattina di Wurst Brau da 40 centesimi. Avevo letto il loro nome in qualche recensione sua o di Stefano Greco, ma erano finiti in quella speciale nicchia del cervello dedicata alla maggior parte dei nomi che leggo nelle recensioni dei due citati, cioè quella dei gruppi per fattoni il cui ascolto va rimandato ai momenti di maggiore ottundimento mentale. E invece questi meritano di essere ascoltati anche nella lucida e squallida quotidianità, come perfetta colonna sonora per questi tempi di pioggia, vento, freddo e voglia di morire. Fear and Fury è un pezzo che i quattro di Little Rock suonano dal vivo sin dal 2011, e che ora esce come inserto (in picture disc!) della rivista Decibel. Non è dunque un’anticipazione del terzo album, che io sappia, ma è comunque uno splendido esempio di doom metal alla vecchia in pieno stile Pallbearer. Se non li conoscete, vi consiglio caldamente di approfondire i loro due dischi Sorrow and Extinction e Foundations of Burden; mi ringrazierete. 


MARDUK – Frontschwein (Century Media)

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I Marduk sono uno di quei gruppi che per qualche motivo hanno la nomea di fare sempre lo stesso disco da sempre, ma in realtà non è così. Qualche anno fa era di moda dire lo stesso anche dei Manowar, ma anche in quel caso non era così. Più che avere un’evoluzione costante, la discografia del gruppo svedese si può dividere in varie ere, grossomodo coincidenti con i vari cantanti; qualitativamente, invece, i Marduk sono rimasti piuttosto costanti nell’arco di tredici album, tra dischi bellissimi e dischi soltanto carini, e i passi falsi sono stati fisiologici, con appena due-tre dischi bruttini o noiosi rimasti a prendere polvere sullo scaffale. Frontschwein è destinato a diventare uno di questi ultimi. È fuori fuoco, direi semplicemente sbagliato, a causa di un insieme di fattori imputabili un po’ a scelte sbagliate e un po’ alle contingenze. Mi pare un tentativo di suonare più old school, a cominciare dalla produzione per finire all’arrangiamento dei pezzi, molto scarno ed essenziale; vorremmo essere dalle parti, immagino, del periodo Heaven Shall Burn/Nightwing, ma purtroppo gli è venuta male. E gli è venuta male perché non suonano più così da secoli ormai, perché sono anni che suonano con un’altra sensibilità e un altro approccio, facendosi portare per mano da un cantante che questa musica la faceva già da prima coi suoi Funeral Mist; e, nonostante i venticinque anni di carriera sul groppone, sembravano ancora un gruppo freschissimo. Serpent Sermon è il culmine di un’evoluzione intelligente e ragionata, paragonabile, considerata la storia della band e mutatis mutandis, a quella avuta dai Rotting Christ, da Tom Warrior o dagli Enslaved.

Quindi il ritorno al passato gli è uscito male; non so se sia a causa del fatto che non sono più capaci di suonare a quel modo (anche perché molti membri sono cambiati): certo può essere un insieme di cause, anche perché molto spesso si ha la sensazione di sciatteria e svogliatezza, come se avessero avuto fretta di scriverlo, o l’avessero scritto mentre pensavano, boh, ad altro. Il nuovo batterista non mi piace, ma la produzione della batteria non lo aiuta: per dirne una, nei midtempo il rullante sembra un fustino del Dixan e il charleston sembra quello della banda di paese. Non so se il disco sia stato registrato apposta così male per quella storia del ritorno alle origini, ma alle origini non avevano mica questo suono, e comunque gli è uscita male pure questa. 

Il pezzo migliore è Between The Wolf-Packs, che ha un paio di bei riff. Carucce Falaise e Doomsday Elite, che però avrebbero reso molto meglio con un suono diverso. Le peggiori penso siano Afrika e Nebelwerfer, che non riesco quasi mai a finire prima che mi venga voglia di premere skip. Probabilmente è anche la produzione che non pompa e che soprattutto non è adatta ai Marduk attuali, persino quando vogliono suonare old school come in questo caso. Blond Beast  è stupidina, non so che altro termine usare. Verso la fine del disco c’è 503 che è il solito pezzo cadenzato dei Marduk, ma uscito veramente male; brutti riff, brutte linee vocali, inspiegabile ritornello da pub e  il tutto affossato senza possibilità di scampo dalla produzione che gli toglie potenza cercando di farlo suonare come Dreams of Blood and Iron o Materialized in Stone, senza averne il sentimento. Il paragone col pezzo cadenzato di Serpent Sermon, Temple of Decay, è impietoso. L’ultima Thousand-Fold Death risolleva un po’ le sorti del disco: una caciaronata senza motivo con linee vocali assurde e qualche buono stacco melodico qua e là, quantomeno divertente. E questo è. Chiaramente tutti gli indizi portano a pensare che sia un temporaneo passo falso, quindi non ci preoccupiamo troppo e aspettiamo, rivolgendo ogni tanto una preghierina al demonio affinché restituisca l’ispirazione ai suoi figli prediletti.


I (più o meno) graditi ritorni di ARCTURUS, BURZUM ed ENSLAVED

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Gli ENSLAVED ci fanno dono di un’altra anteprima dall’imminente In Times, la cui uscita nei negozi è prevista per il 9 marzo. Noi continuiamo a dare eco a qualsiasi cosa loro facciano perché siamo convinti che gli autori di RIITIIR siano tra i migliori gruppi attualmente esistenti. Questa One Thousand Years Of Rain rimescola per l’ennesima volta le carte, ripartendo dallo stile degli ultimi album e nel contempo riprendendo suggestioni viking ormai da lungo tempo accantonate. L’attesa per il disco inizia a farsi spasmodica.

Dal canto suo, il conte BURZUM dà ulteriore spazio alla propria logorrea musicale con Forgotten Realms, che a quanto ho capito non è un’anticipazione del prossimo disco, ancora non annunciato, ma semplicemente una traccia che verrà messa in commercio in formato digitale a partire dal mese prossimo. Il pezzo è una specie di ripresa di Rundtgåing av den transcendentale egenhetens støtte, ovvero la strumentale di 25 minuti di Filosofem. Niente strumenti tradizionalmente rock: solo tastierine, sintetizzatori e una voce narrante filtrata. Vikernes dev’essere al corrente del fatto che molti (tra cui io) usano quel pezzo di Filosofem come sonnifero, e infatti nel video avverte di non prendere sonno. Che simpaticone, il conte. 

E poi gli ARCTURUS fanno un nuovo disco. Gli Arcturus? Ma esistono ancora? Ebbene sì, a quanto pare: non ho neanche mai sentito il precedente Sideshow Symphonies di esattamente dieci anni fa, essendomi fermato al bel The Sham Mirrors del 2002. Avevo così completamente rimosso che ora alla voce c’è ICS ‘Corvotempesta’ Vortex, uno che arriva sempre nel momento peggiore. Il disco uscirà l’8 marzo e si chiamerà Arcturian, vediamo un po’ che tireranno fuori.

Arcturus-Arcturian


MANILLA ROAD – The Blessed Curse (Golden Core)

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Mi rendo conto che in 16 anni che scrivo di musica non ho mai parlato dei Manilla Road. È effettivamente difficile dire qualcosa di sensato su di loro, e di solito sull’argomento mi è sempre capitato di sentire fiumi di retorica stucchevole sull’elite del vero metallo che sola può capire l’essenza occulta dei Manilla Road eccetera. Avete presente, “questa è musica per pochi” e cose simili. L’unica recensione sensata che abbia letto (non ne leggo molte, in realtà, e qui sopra mi riferivo più che altro a discorsi da forum e da concerto) è stata quella del Carrozzi per Mysterium, in cui è stato detto grossomodo tutto quello che c’è da dire, cioè poco a livello musicale e tanto a livello attitudinale.

I Manilla Road esistono da, non so, circa trentacinque anni e hanno fatto sempre più o meno lo stesso disco, con varie sfumature diverse a seconda probabilmente dell’ispirazione del momento e dalle letture di Mark Shelton. Ad esempio il terzultimo Playground Of The Dead è più oscuro e malmostoso del solito, ma più che di cambio di direzione quella era quasi una raccolta di pezzi di quel genere tutti messi in un unico disco; tipo La Grande Danse Macabre e Panzer Division dei Marduk, se mi passate il paragone. Il loro non è un genere preciso, e l’etichettatura epic metal applicata a loro è più fuorviante che mai; in realtà i Manilla Road sono un gruppo di heavy metal classico dall’impronta tipicamente americana, senza particolari stilemi e cliché ripetibili, al contrario -per esempio- dei Manowar, degli Warlord o dei Candlemass. La loro musica è una rappresentazione sonora della sensibilità di Shelton, con tutto quello che ne consegue; e spesso sembra quasi che le sue influenze siano da ricercarsi non già in altri gruppi musicali ma direttamente nelle sue letture e nelle sue visioni. Lovecraft, la sword & sorcery, Weird Tales, i vecchi film di fantascienza con i pupazzi e il theremin, i fumetti di cinquant’anni fa, la Hammer: se qualcuno mi chiedesse come suonano i Manilla Road, difficilmente potrei rispondere senza fare una lista del genere. Io ho aggiunto tutti i membri del gruppo su facebook e non ci crederete, ma sono davvero così come ce li si è sempre immaginati: Shelton come immagine di copertina al momento ha il fumetto di Thor, giusto per fare un esempio. 

The Blessed Curse è, né più né meno, un disco dei Manilla Road. Chi si aspetta qualcosa di diverso non ha ben capito di cosa stiamo parlando. Se volessimo trovare una cifra stilistica particolare, potremmo parlare dei numerosi pezzi arpeggiati o comunque lenti, che i MR hanno da sempre nel loro repertorio ma che qui costituiscono forse la maggior parte del disco. Non mancano brani più veloci, che personalmente preferisco, tipo Kings of Invention o The Dead Still Speak, ma è sempre la stessa roba da trentacinque anni. La stessa, splendida roba da trentacinque magnifici anni.

Perché i Manilla Road, è il caso di specificarlo, sono uno dei gruppi migliori mai esistiti. Non condivido il giudizio negativo sulla voce di Shelton espresso da Carrozzi, ma sono gusti. Per me sarebbe impossibile pensare a un disco dei Manilla Road prodotto e registrato come Cristo comanda, figurarsi pensarlo cantato da un cantante normale. Qualche tempo fa sentivo il debutto di un gruppo epic metal americano chiamato VISIGOTH (moniker spettacolare, peraltro) in cui c’è una cover di Necropolis cantata, suonata e prodotta in un modo civile. Il disco era carino, ma ascoltare quella cover è stata una sofferenza fisica anche e soprattutto perché Necropolis è a parer mio la miglior canzone dei Manilla Road (quindi una delle migliori canzoni mai scritte). Comunque da qualche tempo anche Shelton si è piegato a chi, come il suddetto Carrozzi, non gradisce i suoi latrati; e ha quindi assoldato un altro tizio con cui alternarsi al microfono, tale Bryan ‘Hellroadie’ Patrick, che come cantante è un cane quasi quanto lo stesso Shelton e la cui voce somiglia a quella di quest’ultimo in modo quasi indistinguibile, e quindi non si capisce perché lo abbia preso; forse è un tizio che Shelton ha conosciuto a un’asta in cui svendevano scatoloni pieni di vecchi tascabili di fantascienza provenienti da qualche cantina allagata, o a qualche convention per fumettari, non so.

Quello che so è che Mark Shelton è UNO DI NOI. Se Metal Skunk fosse uno Stato, Shelton avrebbe la cittadinanza onoraria e probabilmente sarebbe pure titolare di qualche dicastero. Potrei spingermi più in là e gridare IF YOU DON’T LIKE MARK SHELTON YOU ARE NOT MY FRIEND ma nella vita ho imparato la tolleranza da quando ho scoperto che gente rispettabilissima e degna di stima è in realtà vegetariana. Quindi può anche darsi che siate persone perbene anche se non vi piacciono i Manilla Road e l’abbacchio alla scottadito, ma sarebbe meglio che i due fenomeni non si presentassero contemporaneamente. (trainspotting)

signori e signore, la giustizia divina

signori e signore, la giustizia divina

Post Scriptum: in conclusione dovrei parlarvi del secondo disco, chiamato After The Muse, lento e tendenzialmente acustico, che in teoria, se ho capito bene, sarebbe dovuto uscire addirittura come side-project. Non ho molto da dire però: non è roba assimilabile ai Manilla Road se non in minima parte, e i sei pezzi presenti (tra cui, doveroso segnalarlo, uno risalente al 1981) mi hanno annoiato ogni volta che ho provato ad ascoltarli. A quanto pare questo non è un bonus disc ma proprio un allegato all’album ufficiale; immagino quindi che non avrà un seguito.


ENSLAVED – In Times (Nuclear Blast)

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Enslaved-In-TimesMai gli Enslaved ci avevano fatto aspettare tre anni tra un full lenght e l’altro, senza peraltro neanche molcere l’attesa con qualche intermezzo come avevano fatto prima del disco precedente. Non che questo abbia cambiato molto le cose, perché come già detto gli episodi minori della discografia recente degli Enslaved seguono un’evoluzione diversa rispetto a quella della discografia maggiore, diciamo così. In Times è, difatti, il figlio naturale di RIITIIR, di cui prosegue un cammino lungo ormai quasi venticinque anni e che vede i norvegesi proiettati senza freni verso un’unicità che continua a stupire non tanto da un punto di vista strettamente stilistico (di questo ormai non ci stupiamo più da parecchio) ma più che altro per il suo mantenere sempre livelli altissimi senza mai scadere. E così ci ritroviamo nell’anno 2015 a sprecare comparativi assoluti o quantomeno di maggioranza per il nuovo disco degli Enslaved, cosa che facciamo ormai da quando il blog è nato, e anche da prima.

Ci eravamo esaltati per l’opener Thurisaz Dreaming, diffusa online un paio di mesi fa, sperando che fosse rappresentativa di tutto l’album. Così è, ma In Times offre addirittura episodi migliori. Uno tra tutti è proprio la successiva Building With Fire, un perfetto esempio di come gli Enslaved sappiano coltivare la propria vena melodica senza remore ma soprattutto riuscendo sempre a coniugarla sia con la propria parte estrema sia con la propria storia. Una storia che, volendo procedere per categorie temporali, parte da Isa, il primo disco con questa formazione: se anche precedentemente c’era già abbondantemente stata un’evoluzione in senso, non so, avantgarde?, dopo di esso la suddetta evoluzione prende corpo in modo più coerente e inizia a svilupparsi sfruttando anche le caratteristiche dei singoli membri della formazione. Sarebbe impossibile, adesso, immaginarsi gli Enslaved senza Arve Isdal, Cato Bekkevold e Herbrand Larsen: specialmente l’arrivo di quest’ultimo ha dato molta più profondità al sentire degli Enslaved; sia per la sua splendida voce sia per il suo modo molto personale e rarefatto di interpretare l’atmosfera dei pezzi dietro alla tastiera.

Detto questo, io la settimana prossima li andrò a vedere al Roadburn, in cui suoneranno DUE VOLTE. Suoneranno DUE VOLTE anche i Fields of the Nephilim, ma questo è un altro discorso. Non rimango lì a lasciarmi morire solo perché il 6 maggio vengono i Blind Guardian a Roma ed è già uscita la scaletta del tour. Peraltro quest’edizione del Roadburn è stata curata da Ivar Bjornson, quindi Metal Skunk deve per forza presenziarvi, essendo noi l’ufficio stampa non ufficiale degli Enslaved.


Ti porterò dove si venera IL RIFF: Roadburn Festival 2015, Tilburg (Paesi Bassi)

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Il Roadburn non c’entra nulla con i festival a cui siamo abituati. Poca gente, solo tremila persone, al chiuso, arrivi al quarto giorno che conosci più o meno tutte le facce dei convenuti, compresi i musicisti che, quando non sono sul palco, girano tra il pubblico a guardare gli altri concerti. Si svolge tutto in una piccola viuzza del centro di Tilburg, nella quale ci sono: lo 013 (la struttura principale, con tre palchi: il Main Stage, la Green Room e lo 01); di fronte a quest’ultimo, l’edificio dedicato a merchandising/mostre/cinema etc; e infine, venti metri più in là, il Patronato, di cui parlerò più diffusamente in seguito. L’unica struttura più distaccata è il Cul de Sac, un minuscolo pub a 50 metri di distanza. Vi risparmio l’odissea del viaggio di andata perché dopo lo Wolfszeit ogni sfacchinata mi sembra una passeggiatina di salute, ma sappiate solo che per colpa dei controllori di volo mangialumache d’oltralpe siamo arrivati alle nove di sera, perdendoci una quantità di roba impressionante: Salem’s Pot, Sub Rosa, Primitive Man, Minsk, Solstafir e soprattutto i Russian Circles, che non potete capire quanto ho bestemmiato quei maledetti mangiarane per avermi fatto perdere i Russian Circles.

PRIMO GIORNO

setlist thursdayQuando riusciamo finalmente ad arrivare in loco salutiamo i due fratelli Greco e ci fiondiamo subito dai MONOLORD, che suonano quasi tutto il debutto Empress Rising al Patronato (all’anagrafe Het Patronaat). Quest’ultimo è un vecchio edificio, lungo più o meno venti metri e largo dieci, adiacente a una chiesa e che in passato ne faceva parte: a testimonianza di ciò rimangono, tra le altre cose, il soffitto altissimo e le vetrate con le immagini di santi e madonne; ora però si venera IL RIFF, e i Monolord sono il modo migliore per iniziare il Roadburn, quantomeno in mancanza dei Russian Circles. La cosa di cui ci rendiamo conto subito è che il suono è praticamente perfetto e che, se volessimo, potremmo tranquillamente infilarci tra le prime file semplicemente chiedendo permesso e senza neanche usare troppa cazzimma all’italiana. Questa nozione ci sarà molto utile per tutti e quattro i giorni del Roadburn. Concerto spettacolare, comunque.

Per entrare subito nell’atmosfera da festival ci fiondiamo a prendere posto per gli EYEHATEGOD che suonano sul Main Stage. O quantomeno ci proviamo: lo 013 è strutturato come un cinema multisala, con un’infinità di porte, porticine, scale, uscite di sicurezza e interstizi vari che collegano le parti della struttura: siamo stati quattro giorni a bazzicare là dentro e ancora non ho capito come si arrivi al piano superiore della Sala 01 (quantomeno volontariamente, perché involontariamente ci sono capitato più volte, magari mentre cercavo di arrivare al bagno). Roadburn-2015-Bongripper-AfterburnerInsomma alla fine riusciamo ad arrivare al Main Stage, e di lì a poco Mike Williams ci vomita addosso tutto il suo disagio; che non è più quello di un tempo, dato che ormai il Nostro ha smesso di farsi di eroina. Il suono un po’ ne risente: troppo pulito e nitido, molto lontano dal torbido che li caratterizzava tempo fa. Io non li avevo mai visti prima d’ora, quindi va bene lo stesso.

Dopo gli Eyehategod arriva il primo dilemma del festival: Bongripper, Mugstar o Goatwhore? Io propenderei per i primi, mentre Ciccio è indeciso tra gli ultimi due. Ma è stata una giornata molto sfiancante, e anche il sardo bastardo si convince a rimanere nel Main Stage per l’esibizione dei BONGRIPPER, che per l’occasione suonano tutto l’ultimo Miserable, feedback più feedback meno. Ogni musica va associata al giusto stato d’animo, e fortunatamente io ero in quello stato d’animo in cui rimani tutto il tempo riverso sui gradini, con la testa tra i ginocchi, affamato, stanco e lurido, mentre quei quattro soggetti fanno stridere le chitarre a un volume considerato fuorilegge in svariate parti del Pianeta. La chiusura ideale per il primo giorno di Roadburn.

SECONDO GIORNO

Roadburn-2015-Houses-Of-The-HolisticMi sveglio pieno di buoni propositi e scendo giù nell’area benessere dell’albergo. Vedo subito la piscina dietro a una vetrata e spreco un tempo indefinito cercando di arrivarci aprendo un’infinità di porte, ma senza riuscirci: un suggerimento per gli albergatori olandesi potrebbe essere, non so, quello di non usare solo scritte in olandese sulle porte, anche perché in quelle situazioni uno va tutto convinto per andare in bagno e si ritrova nello spogliatoio femminile, il che non è proprio il massimo specie perché l’età media dei frequentatori di questi posti è tipo quella del pubblico della Signora in giallo. Nelle mie peregrinazioni in quel labirinto di porte che danno su corridoi che danno su altre porte a un certo punto trovo i Grecos in una specie di sala relax, vestiti solo di un asciugamano in vita, accasciati su due lettini come dei patrizi romani debosciati. Sfiduciato e timoroso di piombare per sbaglio in una stanza piena di anziane che si depilano, ripiego sulla sauna, nella quale trovo la simpatica compagnia di un settantenne scandinavo a palle all’aria che respira come Darth Vader. È un po’ inquietante, anche se sono sicuro che lui direbbe lo stesso del feedback di chitarra dei Bongripper che ancora mi ronza nelle orecchie. 

Ritorniamo in città e fa un caldo impressionante. Io mi sono portato dietro il guardaroba di un eschimese d’inverno ma qua rischio di sciogliermi al sole. Vista la bella giornata, comunque, ce ne andiamo tutti e quattro a fare un giro per il centro di Tilburg: io e Ciccio dobbiamo comprare gli ingredienti per i panini, mentre Stefano Greco è in preda a una shopping frenzy per un paio di scarpe da ginnastica. “Vuole assolutamente comprare delle scarpe da ginnastica”, ci spiega mesto il fratello Massimo, “è così tutti gli anni”. Non ricordo se alla fine siamo tornati in tempo per i VIRUS: ricordo solo che, quando ci siamo ribeccati, Stefano non era riuscito a comprare nulla.

Oggi è venerdì, la giornata curata da Ivar Bjornson e il tizio dei Wardruna, quindi ci sarà un nutrito distaccamento di gruppi norvegesi non molto in linea con il classico suono del Roadburn. Dei SOLSTAFIR a me frega più o meno quanto il campionato di calcio polacco: non mi fa schifo, però ecco, anche una Chievo-Empoli sarebbe più interessante. Nonostante ciò assistiamo al loro concerto, perché non c’era nient’altro da fare e perché non si può dire di no alla comodità del Main Stage. C’è un sacco di gente agghindata con maglie, toppe e bric-a-brac vario sui Solstafir: una cosa per me inspiegabile, ma così va la vita. Loro comunque sul palco non se la cavano neanche male.

FOTN-Roadburn-2015-FridayInutile nascondermi: tutta quest’ammazzata di viaggio l’ho fatta principalmente per vedere i FIELDS OF THE NEPHILIM. Per me loro rivestono un’importanza particolare perché sono stati tra i primissimi gruppi che ho amato quando mi stavo convertendo alla musica seria, verso i tredici anni. Suoneranno anche il giorno successivo, per quasi il doppio del tempo, ma già oggi sparano alcuni tra i loro cavalli di battaglia, tra cui Moonchild, The Watchman e soprattutto For Her Light, che provoca un brivido in tutto l’uditorio. Carl McCoy è il più figo di tutti, ha (sempre avuto) il look più figo della storia e da sotto al suo cappellaccio riesce a creare un’atmosfera così intensa e oscura che di sicuro al Demonio saranno fischiate le orecchie. Menzione speciale per il quarantacinquenne pelato con l’aspetto da impiegato del catasto che è stato tutto il tempo sotto al palco a guardare McCoy e a ballare come le caricature dei gay nelle commedie sexy anni ’70.

Dopo l’ubriacatura da Fields of the Nephilim, un altro dilemma: andiamo al Patronato a vedere il secondo concerto degli Eyehategod e poi rimaniamo lì per i The Heads, oppure andiamo a curiosare dai Focus, di cui non conosciamo nulla a parte quella canzone? E senza considerare che ci sono anche i Tombstones che attaccano di lì a poco nella Green Room! Ci ragioniamo un po’ e alla fine decidiamo di non fare assolutamente niente se non gironzolare per lo 013 e mangiare i panini. Passiamo dai FOCUS giusto per sentire qualche vocalizzo ma la sala è strapiena, troppo sbattimento. La pigrizia ci mangia vivi e quindi torniamo placidamente a spiaggiarci al Main Stage, dove suonano i WARDRUNA, orfani di Gaahl. Roadburn-2015-Wardruna1Ciccio sta male, per svariati motivi, quindi va a buttarsi in qualche angolo buio e umido dove però, invece di trovare Mike Williams, fa la conoscenza della troupe di documentaristi del Roadburn che cercavano uno particolarmente devastato per il momento situazionista del servizio. Io invece mi sparo tutta l’esibizione dei norvegesi e consiglio caldamente di guardarla anche voi, se riuscite a trovarla su youtube.

Tocca finalmente agli ENSLAVED, a cui fra un po’ chiederemo una percentuale sugli incassi perché ogni volta che fanno un rutto io scrivo un articolo dicendo puntualmente “Ma che bel rutto! È il rutto più bello dell’anno in corso! È incredibile come gli Enslaved esistano da vent’anni e ancora riescano a ruttare così bene”, eccetera. Suoneranno anche il giorno dopo, ma il vero capolavoro è questo concerto, in cui faranno due pezzi da Frost (Loke e Fenris), uno da Eld (Alfablot) e addirittura uno da Hordanes Land (Allfodr Odinn). Superlativi assoluti random e boccali al cielo.

Dopo aver assistito a Fields of the Nephilim ed Enslaved nell’arco di cinque ore, io sono l’uomo più felice e soddisfatto del mondo. Sarei tranquillamente disposto ad andare ad un concerto di Jennifer Lopez senza lamentarmi troppo, perché ho finalmente fatto felice il mio me-stesso-tredicenne stando sotto al palco mentre Carl McCoy cantava Moonchild. Però la prima giornata di Roadburn non è ancora finita, e quindi andiamo a curiosare al Cul de Sac, ché ancora non ci siamo entrati: è un minuscolo pub a cinquanta metri dalla struttura principale, grande più o meno la metà del Sinister Noise, con un palco piccolissimo e pochissimo spazio per il pubblico, il quale si accalca tipo mandria di bisonti rinchiusi in un recinto con gli spilloni nei testicoli. Suonano le MORTALS, che avevo sentito di sfuggita su Spotify e che non mi erano manco dispiaciute troppo. Sono tre tipe di New York che fanno uno sludge blackettone e che, purtroppo, ridono mentre suonano. Non dovrebbero ridere mentre suoni musica del genere, qualcuno dovrebbe dirglielo.

Roadburn-2015-SkuggsjaAlla ventesima gomitata allo sterno capisco che forse lì al Cul de Sac non è aria e quindi torniamo alle comodità dello 013, passando a vedere prima cosa stanno combinando i LUCIFER  (carucci) e poi direttamente al Main Stage, dove suonano gli SKUGGSJA, un gruppo estemporaneo che riunisce tutti i membri di Wardruna ed Enslaved e che per la prima volta suona fuori dalla Norvegia. Dovrebbe essere un progetto per festeggiare i duecento anni della costituzione norvegese, o qualcosa del genere; comunque sembra una cosa un po’ raffazzonata, fatta in fretta e furia, con gli stili delle due band che si alternano oppure, quando cercano di amalgamarsi, rimangono sempre molto ben riconoscibili. Alla fine del concerto Ciccio mi dice “Belli questi no?”, belli sì, però grazie al cazzo, belli i Wardruna, belli gli Enslaved, li metti insieme a fare la stessa cosa che fanno individualmente e vinci facile.

TERZO GIORNO

Oggi il percorso benessere è chiuso, quindi i Grecos vogliono fuggire dall’albergo prima del solito anche perché Stefano ha ancora quel problema con le scarpe da ginnastica, che non è riuscito a comprare il giorno prima nonostante a Tilburg ci siano decine di negozi di scarpe da ginnastica uno di fila all’altro. È però anche il giorno dei GOBLIN, che suonano tutta la colonna sonora di Zombi. È un’esperienza unica al mondo: nella Main Hall, tutti tranquilli e seduti sui gradoni con la poca gente delle tre di pomeriggio, Zombi proiettato sul megaschermo e i musicisti sul palco davanti, con Simonetti che ha un occhio fisso sul film e dà il tempo agli altri. È tutto perfetto, tutto troppo bello.

Non ce ne saremmo mai voluti andare via dai Goblin dopo una sola ora di spettacolo, però al Patronato suona KING DUDE e comunque domani Simonetti suona tutto Suspiria quindi è ok. Il signor King Dude, al secolo Thomas Cowgill, sale sul palco da solo, vestito come un sardonico predicatore nazionalsocialista con la pistola nella fondina, con la chitarra elettrica ad accompagnarne le nenie. È una delle esibizioni migliori di tutto il Roadburn: lui è un intrattenitore nato, quasi uno di quei standing comedian americani con la chitarra e un variegato repertorio di sfottò verso i soggettoni nel pubblico. Musicalmente è un incrocio tra il neofolk e Johnny Cash, e lo è anche visivamente, in un certo senso; però dal vivo ci mette una pesantissima carica di umorismo che fa passare i cinquanta minuti di concerto in una folata di vento. A un certo punto si guarda intorno e dice “Mi stanno facendo suonare in una chiesa. Vi rendete conto? Dovevo venire a Tilburg per suonare in una chiesa“, e mi sono ricordato di Phil Anselmo all’Hellfest quando disse “Questi francesi sono proprio imbecilli: farmi suonare a mezzanotte, come se non sapessero che io a quest’ora sono sempre ubriaco“. Cowgill suona Lucifer’s The Light Of The World, un po’ un cavallo di battaglia, ma purtroppo non suona la mia preferita, Spiders In Her Hair, una specie di La Belle Dame Sans Merci col sorriso sulle labbra e l’odio nel cuore. Ora questo viene a fare il tour italiano, ma a Roma passa esattamente il giorno dei Blind Guardian (e dei Goat). Non posso mancare all’appuntamento col mio gruppo preferito quindi mi sa tanto che mi sposto a Bologna solo per lui, però ecco, cercate di andare a vederlo anche voi.

Roadburn-2015-Enslaved-House1Torniamo al Main Stage per gli ENSLAVED, che stavolta si concentrano sulla produzione post-2000, facendo mezzo disco nuovo (pure la splendida Building With Fire) e chiudendo come di consueto con Isa. C’è però tempo per una tremenda cover di Immigrant Song, un pezzo che ho sentito coverizzato da decine di gruppi ma mai, MAI, in maniera anche solo decente. Fatevele due domande, no? E a sto punto suonatemi Vetrarnòtt, porca madosca.

Nelle due ore e mezza successive che ci separano dalla seconda esibizione dei Fields of the Nephilim c’è parecchio imbarazzo della scelta, ma io mi adeguo al mood rilassato e pigro del Roadburn e lascio scegliere a Ciccio, che mi porterà prima dai MESSENGER (di cui non ricordo una singola nota) e poi dai THE HEADS, di cui ricordo solo che è stato un bellissimo concerto ma quando a un certo punto ho detto a Ciccio “Ehi, suonano i Black Anvil, andiamo a vedere i Black Anvil?” lui non si è opposto in nessun modo. Quindi ci andiamo a vedere un quarto d’ora di BLACK ANVIL che stavano evocando il Demonio di là nella saletta verde, giusto il tempo di renderci conto del gravissimo errore fatto scegliendo di non guardarli dall’inizio. Ricapiterà occasione.

Roadburn-2015-Black-AnvilSul Main Stage ritornano i FIELDS OF THE NEPHILIM, ed è subito sera. La scaletta è molto simile a quella del giorno prima, a differenza di (credo) tutti gli altri gruppi che hanno suonato due volte e che ogni volta hanno cambiato completamente setlist. Non c’è modo in cui io possa riuscire a descrivervi il concerto dei Fields of the Nephilim senza essere stucchevole, pedante e patetico, quindi mi fermo qui. Mi limito però a lamentarmi della mancanza di pezzi da Zoon, per me un capolavoro assoluto, e peraltro l’unico disco metal del gruppo inglese. Un giorno forse riuscirò a parlare di Zoon, un disco unico e incredibilmente avanti coi tempi che per la mia formazione personale ha avuto un’importanza forse maggiore di The Number of the Beast. Mi ha fatto piacere sentire For Her Light per due volte, però almeno Shine si poteva fare.

Non ho più niente da chiedere alla vita per quest’oggi, quindi mi lascio trascinare da Ciccio prima dagli URFAUST (il cui concerto terminerà con abbondante anticipo per un attacco di tendinite del tipo) e poi dagli ZOMBI, la cui musica sarebbe tanto carina e simpatica se vivessimo in un film psichedelico del 1972. A un certo punto però si rompe le palle anche Ciccio e facciamo un giro incrociando casualmente lo show dei SAMMAL, che ci ha lasciato talmente soddisfatti che Ciccio si è scordato di citarli nel suo report e io stavo sbagliando il nome nel mio (avevo scritto MAMMAL). Concludiamo la serata ritornando dagli Zombi e sfattonando lì fino all’ora dell’appuntamento coi Grecos.

QUARTO GIORNO (AFTERBURNER)

Roadburn-2015_SundayRiesco a fare il percorso benessere completo (per la cronaca, la piscina si trovava dietro a una porta con su scritto whirlpool e che quindi io non avevo aperto perché ero sicuro fosse la sala idromassaggio) e anche questa volta ci muoviamo prestissimo perché Stefano deve comprare ste cazzo di scarpe da ginnastica. La giornata di domenica si chiama Afterburner perché ci sono solo tre palchi invece di cinque (niente Patronato e 01), ma suonano gli Anathema quindi è stracolmo di gente lo stesso. I miei compagni d’avventura sono tutti ansiosissimi di vedere la performance degli WHITE HILLS, di cui non me ne frega, diciamo, un cazzo; ma con una subdola opera di convincimento stile Ditocorto riesco a convincere Ciccio a spostarci a metà concerto a vedere gli ARGUS, discreti sbevazzoni heavy metal americani con tanta epicità nel cuore e altrettanta birra in corpo. Il cantante è un simpatico ciccione che dopo il concerto è stato tutta la giornata in giro accompagnato via via da fanciulle sempre diverse, sempre con una mano sul fianco di una di queste ultime e con la birra nell’altra mano. Musicalmente non c’entravano nulla col festival, ma forse erano un messaggio di Odino per ricordare a tutti quei maledetti drogati che sì, ok Master of Reality e tutto il resto, ma alla fine è solo l’acciaio che ti darà davvero il potere e la gloria, anche se sei brutto e sfigato. HAIL CROM!

Sono le 16.30 ed è proprio l’ora giusta per ritornare al Main Stage e sentire un po’ di chitarre ultrasaturate che fanno VROMMMM VROMMMM a cinque all’ora tra fischioni, feedback e senso di nausea. I BONGRIPPER marcano la loro seconda presenza in due giorni e Metal Skunk è presente e fedele alla linea.

Alla fine dei Bongripper abbiamo una mezz’oretta libera e decidiamo di provare a vedere se riusciamo a entrare al Cul de Sac per un concerto intero. Ci sono gli GNAW THEIR TONGUES. È stata una delle situazioni più surreali che abbia vissuto ad un concerto, ma è una cosa talmente complicata da spiegare che ne parleremo in seguito con un articolo a parte.

Roadburn-2015-Goblin-Susperia-2In un’ipotetica graduatoria basata sui valori di serietà e dignità i GOBLIN si collocherebbero all’estremo opposto rispetto ai succitati Gnaw Their Tongues. Stavolta fanno Suspiria, proiettato sul megaschermo mentre loro suonano la colonna sonora. È stata una cosa bellissima e mi sono sentito veramente orgoglioso di Claudio Simonetti e dei suoi, uniche presenze italiane al festival. Alla fine di un brano gli urlo “CLAUDIO!” e lui di rimando “SI’, SONO IO!”. E così mi sono rivisto tutto Suspiria spaparanzato nella sala principale del Roadburn, con Simonetti a venti metri che suonava e gli olandesi intorno che conoscevano il film a memoria: uno dei concerti più emozionanti della mia vita. È stato tutto meraviglioso, mi dispiace davvero per chi se lo è perso.

Forse per farci riprendere dal disagio che ancora ci sentiamo addosso dopo gli Gnaw Their Tongues, ci ritroviamo gli ANATHEMA sul palco subito dopo i Goblin. Anche questo è stato un concerto epocale, dato che si sono portati dietro Darren White e ‘Bimbociccio’ Duncan Patterson. Personalmente mi piacciono più che altro i primi Anathema, dopo di che vado un po’ a canzoni, diciamo. Da un punto di vista formale però è tutto davvero perfetto, e Vincent Cavanagh batte Darren White 10-0 per carisma e presenza scenica: il cantante di Serenades (e batterista sui primi demo dei Cradle of Filth, attenzione) ora sembra un fighetto screamo che si tira la maglietta mentre canta, tipo quello dei Linkin Park. Epperò la cosa in un certo modo funziona, forse perché sono i Cavanagh che la fanno funzionare, ma funziona.

Due ore e dieci di Anathema per me sono decisamente troppe, quindi con la scusa di andare in bagno vado a cazzeggiare nella adiacente Green Room e trovo questi scoppiati a nome TERMINAL CHEESECAKE che suonano qualcosa di pesantemente acido davanti ai pochissimi che non stanno dagli Anathema. Una decina di minuti per vedere che succede e torno per il suddetto set di Darren White. Poi ritorno ancora nella saletta verde perché sta suonando un gruppo chiamato THE GOLDEN GRASS, ed è bello che l’ultimo gruppo del Roadburn che vedo si chiami THE GOLDEN GRASS. In realtà gli ultimi saranno quelli che vedrò quando tornerò nella sala principale per ribeccarmi con gli altri, ovvero tali THE OSIRIS CLUB, che sono vestiti come monatti e suonano un rockettino floscio e stronzissimo. Sembrano i Tre Allegri Ragazzi Morti; e penso di aver detto tutto.

Torniamo verso la macchina e Stefano ci dice tutto orgoglioso di aver comprato le scarpe da ginnastica. Noi siamo ovviamente curiosissimi di vedere quale incredibile paio di scarpe unico al mondo abbia avuto l’onore di essere scelto, dopo 40 negozi di scarpe visti. Quindi Stefano apre la scatola e scopre un paio di gazzelle bianche e nere, tipo quelle che ti tirano addosso quando entri in un qualsiasi Footlocker. L’atmosfera del Roadburn fa questo e altro, fratelli del vero metal. Un solidale abbraccio a suo fratello che lo ha accompagnato in giro per tutti i negozi di scarpe della fantastica Tilburg; le porte del Valhalla ora per te sono un po’ più aperte, Max.

goblin

La mattina dopo è tempo di tornare. Lo so che è una frase fatta, ma è davvero difficile riabituarsi alla vita normale. Riusciamo a passare qualche ora ad Amsterdam e iniziamo già a fare programmi per il prossimo Roadburn. Ciò che ci ha lasciato è qualcosa di diverso da qualsiasi altro festival: da un Roadburn ritorni con la sensazione di esserci stato, di aver preso parte alla rappresentazione fisica di un sentimento, di un’attitudine alla vita, di un qualcosa di indefinibile che va molto oltre la musica. Per un amante della musica, assistere al Roadburn è l’equivalente di un’apparizione della Madonna a Medjugorie per un credente, o di un viaggio alla Mecca per un musulmano. È molto più di un concerto, e ti lascia qualcosa di diverso rispetto ad altri festival più grossi e blasonati. Il Roadburn è stato creato per passione, e pur essendo adesso molto cambiato rispetto agli esordi è riuscito incredibilmente a mantenere parecchia di quella passione iniziale; è un festival fatto da gente che adora questa musica almeno quanto me e voi, e che è frequentato esclusivamente da gente con la stessa passione, che compra uno dei pochissimi biglietti disponibili a scatola chiusa, senza poter aspettare di sapere chi ci sarà, perché 3000 biglietti finiscono in poche ore. Quest’anno c’erano pochissimi italiani tra il pubblico; se questo report ne convincerà anche uno solo in più a venire l’anno prossimo mi sentirò una persona migliore. (Roberto ‘trainspotting’ Bargone)



Avere vent’anni: BLIND GUARDIAN – Imaginations From The Other Side

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Era il 1997, forse il 1998. Avevo sedici anni, o giù di lì, e dissi al mio compagno di banco la seguente frase:

la gente che non conosce il coro dopo l’assolo di Imaginations From The Other Side non sa cosa vuol dire essere felici.

Il mio compagno di banco, Gianmarco, era talmente abituato a cose del genere che fece un sorriso come al solito e liquidò la cosa con un laconico ma li muerti tua. Però il concetto è più o meno quello; o meglio, il principio per me vale davvero. Nel senso che se non avessi conosciuto Imaginations From The Other Side sarei stato meno felice. Questo si può dire per molte cose, per carità: anche se non avessi conosciuto Illud Divinum Insanus sarei stato meno felice, perché certe volte mi viene in mente il pezzo che fa FALCOOOOR e penso a David Vincent in groppa al drago col pugno in aria, e rido da solo per strada; è un concetto che si può estendere a parecchie cose: anche a singole canzoni, per rimanere in ambito musicale. Però il modo in cui Imaginations From The Other Side ha inciso sulla mia esistenza fa sì che per me ci sia un pre e un post-IFTOS. Questo disco ha formato il mio immaginario, il mio concetto stesso di musica, e molti dei parametri con i quali mi sarei poi approcciato alla musica vengono da qui. Mi ha accompagnato per tutta la vita sin dal principio, come forse nessun altro. Non è stato il primo disco metal che ho ascoltato, e forse neanche il primo a cui mi sia davvero legato, però se penso al momento in cui tutto è cominciato mi viene in mente questo album.  Musicalmente questo è l’apice dell’evoluzione stilistica dei Blind Guardian. I primi cinque dischi sono tutti ugualmente belli, anche se ognuno in modi e per motivi diversi. Imaginations From The Other Side è il quinto: non è il termine dell’evoluzione, che continuerà coi seguenti Nightfall In Middle-Earth e A Night At The Opera, ma è l’ultimo album davvero inattaccabile della band. Non ho mai sentito nessuno parlare male di IFTOS, e non so di quanti dischi non ‘classici’ si possa dire lo stesso. Hansi Kursch, Andre Olbrich e Thomen Stauch sono probabilmente il meglio che il power metal tedesco abbia mai offerto nei rispettivi ruoli, e qui sono in stato di grazia come forse mai in vita loro. La produzione di Flemming Rasmussen è semplicemente perfetta: potentissima, nitida, calda, eppure mai fighetta. Anni novanta. Mordred’s Song è senza dubbio la canzone che più ho canticchiato in vita mia. Qui dentro c’è Bright Eyes. Madonna quanto è bella Bright Eyes. Fare una semplice recensione di questo disco mi sembra davvero ridicolo; se non lo conoscete ascoltatelo, ascoltatelo e amatelo, provateci anche se il power metal vi disgusta, provateci pure se siete fan di Ligabue e siete capitati su Metal Skunk cercando su google maiala antidroga aeroporto di francoforte: fatelo. Un’ultima cosa che mi sento di dire su Imaginations From The Other Side (e sui Blind Guardian in generale), tanto per farvi capire quanto profondamente abbia inciso su di me, è che a causa di Hansi Kursch a volte pronuncio un po’ alla tedesca certe vocali quando parlo in inglese. Gianmarco davvero non lo sapeva, cosa si stava perdendo a non ascoltarmi. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)


HELLFEST: Blashyrk bruciato dai fanatici religiosi, la storia che commuove il web

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Un paio di giorni fa, a Clisson, in Francia, il luogo dove si tiene l’Hellfest è stato vandalizzato da alcuni fanatici religiosi, che si sono certamente guadagnati il paradiso compiendo la valorosa impresa di spaccare cose a caso e inoltre scrivere con la bomboletta sui muri, gesto che personalmente ho sempre ritenuto molto intelligente, così in generale. Anzi, visto che è capitato il discorso, ci tenevo a mettervi al corrente dell’enorme stima che provo verso chi scrive sui muri con le bombolette. Ho sempre ritenuto che siano tutti persone molto brillanti, in gamba, e meritevoli di un arco di trionfo apposito sulla via Tiburtina in fondo vicino al McDonald, dove ci sono le mignotte. Pensate quanta simpatia possa avere per questi tizi che non solo sono, di base, nemici del vero metal; sono pure una specie di fanatici religiosi black bloc, una combo che già da sola varrebbe il costo di un lanciafiamme con cinque-sei ricariche belle pronte; ma scrivono pure sui muri con quelle cazzo di bombolette, e scrivono VADE RETRO SATAN, una cosa al livello dei testi dei Dark Funeral. Ci hanno disegnato pure il Sacro Cuore, così Satana l’anno prossimo ci pensa due volte prima di manifestarsi all’Hellfest come ha fatto durante i Black Sabbath l’anno scorso. Capito che soggetti? Potrebbero organizzarsi in qualche cellula armata clandestina che lancia bombecarta nel nome di Gesù. Potrebbero chiamarsi, non so, Panzer Division San Giuseppe o qualcosa del genere; si accettano suggerimenti.

Ma la cosa più grave è che questi cani infedeli hanno bruciato Blashyrk! Ne avevo parlato nel report dell’anno scorso: Blashyrk era un enorme corvo posto su un’alta pedana più o meno al centro dell’area concerti, che veniva usato come punto di riferimento e di ritrovo. Il nome gliel’ha dato Michele Romani, quindi è così. Blashyrk era il crudele corvo nero che sorvegliava le anime dei morti, ma questi quattro traditori dell’acciaio lo hanno ridotto in cenere e per questo verranno scuoiati vivi e i loro corpi agonizzanti cosparsi di sale ogni giorno fino al Ragnarok, in cui finalmente bruceranno, mandando le loro anime nell’Helheim a fare il gioco della saponetta nello spogliatoio del Milan per l’eternità. Noi non abbiamo parole adeguate per esprimere il senso di vuoto che proviamo; ci affideremo all’immagine: 

Di seguito alcuni estratti dei comunicati che trovate sulla pagina fb dell’Hellfest:

Nella notte tra sabato 2 e domenica 3 maggio, alcuni individui si sono introdotti nel sito dell’Hellfest. Ancora una volta, il festival è vittima di attacchi di gruppuscoli cattolici, ma ora dalle parole sono passati ai fatti! […] Stamattina abbiamo trovato molti danni: vandalismo e graffiti su sculture e contenitori, distruzione di varie strutture e aree verdi (tra le scritte, ‘J-47: primo avvertimento’, ‘Vade retro Satan’ etc).

Il nostro corvo e una parte dei camini dello Hell City Square (dove c’è il mercatino, ndbarg) sono ridotti in cenere. Hanno sigillato le guaine dei cavi elettrici e hanno tagliato i tubi dell’acqua. […] Vi chiediamo di non compiere ritorsioni con la comunità cattolica. Questi attacchi vengono da alcune minoranze, e sarebbe ingiusto associare questi atti all’intera comunità cattolica.

Chiudono assicurando che tutto ciò non influirà sulla puntualità e buona riuscita del festival, e dicendo di non voler parlare troppo sulla vicenda; e difatti non ci sono molti altri dettagli da dare. La prossima volta che avrete un boccale in mano alzatelo a Blashyrk, il punto di ritrovo più grim and frostbitten di tutti i tempi. (trainspotting)


BLIND GUARDIAN // ORPHANED LAND @Atlantico, Roma 06.05.2015

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Il senso di straniamento principale viene non solo dal fatto che l’ultima volta che sono andato all’Atlantico è stata anche l’ultima volta che ho visto i Blind Guardian, cinque anni fa; ma che la prima volta che ci andai fu proprio per vedere i Blind Guardian per il tour di Nightfall nel mio secondo concerto metal in assoluto, nel 1999, appena raggiunsi l’età per spararmi 600 chilometri da solo. C’è sempre il prode Luca Arioli, unico fedele compare dei concerti power metal nei secoli dei secoli, ma questa volta la compagnia di Metal Skunk si allarga: è con noi anche Cesare Carrozzi in groppa al suo asinello dalle remote lande abruzzesi; Enrico Mantovano che ogni singola volta che lo sento interessato a un gruppo che non sia stoner/sludge/doom gli dico “ma guarda, e io che pensavo che ti piacesse solo lo stoner/sludge/doom”; e ultimo ma non ultimo il Masticatore, che per settimane ha sentito il bisogno di ribadire ai quattro venti la sua eterosessualità, perché secondo lui se ti piacciono i Blind Guardian la gente può pensare male. La particolare bizzarria di ciò sta nel fatto che lo stesso Masticatore manda continuamente foto del membro del suo coinquilino ai suoi contatti whatsapp, però per quello non si sente in dovere di giustificarsi. Mannaggia. Tra amici e amici degli amici siamo un bel gruppetto, c’è pure Gabriele Hammerfall (l’autore della brillante teoria sul circolo vizioso dell’alcolismo degli Alestorm), ma a nessuno piace l’ultimo disco. Attacco bottone anche con vari sconosciuti e nessuno che mi dica niente di positivo su Beyond The Red Mirror. Io ho perso le speranze, ma stando così le cose si spera che almeno non ne estraggano troppi pezzi.

A me gli Orphaned Land non sono mai piaciuti. Però quantomeno vent’anni fa erano più accettabili, sia perché erano una simpatica novità sia perché il loro approccio era molto più genuino: adesso, come ha giustamente affermato Matteo Ferri, da interessante fenomeno di contaminazione musicale si stanno progressivamente trasformando in un gruppo che produce paccottiglia arabeggiante per i locali dei kebabbari kurdi intorno alla stazione Termini. Sembra un’esagerazione, ma è proprio così. Entro nel palazzetto gridando PER ME CIPOLLE E SALSA PICCANTE GRAZIE mentre quelli, giusto per non smentirmi, hanno già attaccato con i vari naaaa-naaaa-naaaa arabeggianti da balletto del Bagaglino con Pamela Prati vestita da odalisca. Pare che di solito si portino pure le danzatrici del ventre, ma io è la seconda volta che assisto a un loro concerto e non le ho mai viste. Boh. Noi saremo una decina e gli Orphaned Land non piacciono a nessuno, quindi dopo il quarto d’ora politico tra le ultime file ritorniamo fuori ad aspettare che si cominci a fare sul serio.

Però non si comincia subito a fare sul serio perché i Blind Guardian attaccano con The Ninth Wave, l’opener dell’ultimo disco, il cui ascolto mi ha fatto seriamente contemplare l’ipotesi di spararmi alle ginocchia. È brutto quando il tuo gruppo preferito inizia con un pezzo che non ti piace: è come mettere in frigorifero l’entusiasmo per cinque minuti, mentre stai lì a guardarli con l’aria un po’ ebete e non sai esattamente cosa fare. L’altra volta quantomeno cominciarono con Sacred Worlds, forse l’unico vero capolavoro di At The Edge of Time, che stavolta neanche faranno, con mio grande scorno. Tutto l’imbarazzo però viene spazzato via appena Hansi annuncia Banished From Sanctuary, che colpisce l’Atlantico come un manrovescio sui denti e dà inizio al saltellìo generale. Di lì in poi le varie Nightfall, Fly, Lost in the Twilight Hall riscaldano l’ambiente nonostante gli orribili estratti degli ultimi due album, che si alternano ai vecchi cavalli di battaglia con una nonchalance che gli perdoniamo solo perché sono i Blind Guardian. Perché io dico dico, faccio faccio, ma poi alla fine gli perdono tutto: mi hanno dato talmente tanto che da loro sarei disposto anche a farmi svaligiare casa, figurarsi stare lì ad ascoltarmi tre-quattro brutte canzoni malriuscite che quantomeno mi danno il tempo di andare in bagno o fare il cazzone con Luca Arioli. Anche perché poi a un certo punto le canzoni nuove finiscono e da una commoventissima Lord of the Rings si fa davvero sul serio. Da qui in poi ci sono solo due note stonate: Wheel of Time (sul serio, ma è proprio necessario?) e l’assenza di pezzi da Imaginations From The Other Side, considerato da moltissimi il migliore disco dei BG (non da me, perché considero i primi cinque dischi allo stesso livello) e qui completamente snobbato. Però fanno di seguito Majesty e And Then There Was Silence, un po’ l’alfa e l’omega della loro carriera. Quest’ ultima viene allungata di cinque minuti, arrivando così a venti minuti totali, con un lunghissimo intermezzo di cori cantati dal pubblico con le birre in mano.

Ho visto i Blind Guardian sette/otto volte in vita mia, ma era da tanto che non li vedevo così in forma: e questo nonostante la scaletta non sia, per ovvi motivi, al livello di quella di dieci-quindici-venti anni fa. Peraltro stavolta hanno suonato DUE ORE E MEZZA, una cosa che se me l’avessero detta a sedici anni non avrei dormito per settimane. Rispetto all’ultima volta, inoltre, l’Atlantico ha fatto passi da gigante: sarà l’aria condizionata, non so, ma non si ha più l’impressione di stare in una grotta sotterranea con stallattiti ricoperte di muschio con la costante paura che dal cesso spuntino fuori gli Shoggoth. È migliorata sensibilmente anche l’acustica, contribuendo a rendere il concerto ancora più memorabile. Se non siete venuti per cause di forza maggiore mi dispiace per voi; se non siete venuti perché non vi piacciono i Blind Guardian, sappiate che la moderna medicina ha compiuto passi da gigante nel campo dei trapianti cardiaci: potreste scambiare il vostro arido cuore con un altro in grado di provare sentimenti. GRAZIE a tutti i true believers che sono intervenuti al concerto: you’re not alone, so don’t be afraid in the dark and cold. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)

 

Scaletta:

Ninth Wave
Banished From Sanctuary
Nightfall
Fly
Tanelorn
Prophecies
Lost in the Twilight Hall
Miracle Machine
Lord of the Rings
Traveler in Time
Majesty
And Then There Was Silence
Into the Storm
Twilight of the Gods
Valhalla
Wheel of Time
The Bard’s Song – in the Forest
Mirror Mirror


Carne arrosto, metallo e transumanza: TUBE CULT FEST 2015 (Pescara)

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tube-cult-fest-2015

Non abbiamo mai spiegato perché, al momento di abbandonare il moniker Metal Shock, abbiamo scelto l’attuale Metal Skunk. Certo ci faceva piacere l’assonanza, e sono chiarissime le varie sfumature del termine skunk, ma la cosa fondamentale è che in inglese skunk vuol dire puzzola. La puzzola è piccola, brutta, fetente, maleodorante e incazzosissima; sta sempre per i cazzi suoi e odia tutti; se qualcuno di indesiderato le si avvicina, lei spruzza un fetido liquido a base di zolfo dalle ghiandole anali, capace di arrivare fino a 3 metri di distanza e di far scappare via persino orsi, lupi e, chiaramente, uomini. Ciccio promise di disegnare una puzzola da mettere sull’header del blog, e confidiamo che un giorno lo farà.

Questa piccola premessa per dire che una situazione come quella del Tube Cult Fest è davvero tutto ciò che possiamo desiderare da un festival, e non ce lo saremmo perso per nulla al mondo: 150 persone a sera, in due pub minuscoli nel centro di Pescara convenzionati con un’arrosticineria, con la maggior parte dei gruppi già sentiti giusto di nome e per headliner i Belzebong, una band che di solito i festival al massimo li apre, ma che nei nostri cuori meriterebbe di ricevere posizioni altissime al Wacken, all’Hellfest e pure al festival di Sanremo. Per la serie: gli altri si prendano pure aquile minacciose come simbolo, sushi e supergruppi su superpalchi; noi preferiamo puzzole, arrosticini di pecora e gruppi per fattoni in provincia.

L’appuntamento è alle 20.30 a un’arrosticineria che si chiama Il Signore delle Pecore, convenzionata con il festival. Metal Skunk era presente con me, Ciccio Russo e il Masticatore, insieme ad alcuni true believers come l’eroico Roberto Angolo, nella cui casa ho trovato rifugio per dormire, smaltire le devastanti conseguenze mattutine dopo due cene a base di arrosticini e subire tremila fatality a Mortal Kombat X. Il Tube Cult è un Roadburn in piccolissimo: tutto organizzato in due pub a dieci metri di distanza l’uno dall’altro, in una tranquilla e isolata stradina del centro di di Pescara, con tanto di libretto gratuito con scaletta, mappa e descrizione dei gruppi; l’unica differenza è che, dato il costo abbordabilissimo della manifestazione (13 euro!), tra il pubblico c’è un ampio catalogo di gente che sembra capitata lì per caso, giusto per sostenere gli sforzi dell’organizzatore Davide Straccione o perché, magari, non aveva niente di meglio da fare e in provincia spesso i fine settimana vanno un po’ così.

haunting greenIl primo gruppo a cui riusciamo ad assistere sono gli HAUNTING GREEN, un duo friulano (o veneto?) con una ragazza alla batteria: praticamente gli White Stripes che siamo fieri di meritarci. Non li avevo mai sentiti prima e rimango estremamente sorpreso: suonano un doom psichedelicheggiante abbastanza oscuro da giustificare la parolina ambient che ricorre qua e là nelle descrizioni della band. In sostanza è musica per fattoni, di quella che piace a noi, e di sicuro gli Haunting Green sono la scoperta più bella del festival, almeno per quanto mi riguarda. Un plauso soprattutto alla batterista, sia perché molto brava sia perché padrona di un gigantesco rottweiler che, mi si dice, pare fosse presente anche al festival.

Facciamo un salto al Maze, il locale più piccolo, giusto per vedere com’è. Stanno suonando i BEMYDELAY, di cui riesco a sentire giusto qualche nota prima di venire ri-trascinato all’Orange per il concerto degli UNHOLD, apprezzatissimi dai personaggi a cui mi accompagno. La band svizzera però non è esattamente il mio genere: post-qualcosa vecchio stile, quadratissimo, con quella tipica voce monocorde, eccetera. Loro poi non sembrano svizzeri; anzi, sembrano proprio abruzzesi. Massicci come giocatori di rugby, barbe e capelli nerissimi, grugno incazzoso, tenuta di palco stile adesso scendiamo giù e vi spacchiamo i denti a ginocchiate: un po’ lo stereotipo dell’abruzzese, si potrebbe dire, anche se guardandoci intorno lo stereotipo tende a confermarsi. In particolare c’era uno dei soggetti del pubblico, che qui ovviamente non descriveremo nei dettagli, che rispecchiava in pieno lo stereotipo e che abbiamo soprannominato JU CINGHIALOTTU. Considerata l’atmosfera del festival, capirete che io sono andato in giro due giorni dicendo “sono ju cinghialottu, magnu ji arrushticini e vado aju congertu”, come un deficiente. Non citiamo altri soggettoni tra il pubblico perché eravamo in pochi e poi magari quelli leggono e si riconoscono, ma JU CINGHIALOTTU non potevo proprio tralasciarvelo. 

Insomma dopo gli Unhold qualcuno mi porta verso il Maze perché c’è LILI REFRAIN, che io non so chi cazzo sia. “Ma come  – mi dicono tutti – abiti a Roma e non sai chi è Lili Refrain?”. Ma io non lo so chi è Lili Refrain, scusate. Peraltro anche adesso che ho visto un suo intero concerto non so neanche com’è fatta, perché il palco del Maze è alto quanto un marciapiede e pur non essendo io esattamente uno hobbit non sono riuscito a vedere nulla manco in piedi sullo sgabello. Tutto ciò fa comunque parte del fascino del Tube Cult, quindi seguiamo il flusso di emozioni e ci sentiamo il concerto comodamente seduti sui suddetti sgabelli. Non ho capito bene che cosa stesse accadendo sul palco, ma la signorina Refrain era da sola e cantava, suonava e faceva partire loop come se su quel palco fossero in venti. All’inizio mi lasciato indifferente, poi mi ha preso bene. Chissà che faccia ha, comunque.

Ritorniamo all’Orange per gli headliner del venerdì: i SIMEON SOUL CHARGER, quattro fattoni dell’Ohio talmente scoppiati da essersi trasferiti tutti in Baviera, probabilmente dopo essere stati folgorati dall’Oktoberfest o dai dribbling ubriacanti di Arjen Robben, questo non si sa. Fanno roba settantiana psichedelica, che io riesco a reggere per un’ora solo grazie all’atmosfera che si è creata. Il pubblico però apprezza parecchio, tanto che i quattro drogati crucco-americani si spingono a suonare fino a oltre le due accennando addirittura un riff degli Zippo, glorie locali con cui hanno fatto un tour europeo e che vede tra i membri proprio Davide, l’organizzatore del festival.

SECONDO GIORNO

L’appuntamento è di nuovo al Signore delle Pecore, che fa quegli arrosticini di fegato che piacciono tanto a noi e ai nostri gastroenterologi di fiducia. Ci fanno aspettare un’ora, passata tra insulti al Masticatore che non scrive mai niente ed evocazioni al demonio tramite pentacoli fatti con gli stecchini degli arrosticini (vedi immagine a lato), quindi ci perdiamo l’esibizione degli HYPERWULFF che alcuni di noi aspettavano con tanta ansia. Arriviamo però in tempo per lo show acustico degli SHORES OF NULL, l’altra band di Davide Straccione, ma mentre ci attardavamo dieci minuti fuori per mangiare una fetta di torta arriva un tizio, probabilmente dell’organizzazione anche lui, e ci dice che ci sono i Belzebong che vorrebbero mangiare una fetta di torta con noi. Del resto i Belzebong richiamano le fette di torta anche nel proprio moniker, quindi è un dovere morale condividerle con loro. Ci dispiace quindi per gli Shores of Null, che piacciono molto a tutti noi, ma del resto intrattenendo gli headliner stiamo facendo un utile servizio che ci fa sentire a posto con la coscienza. I polacchi contraccambiano con una vodka che, giurano, è fatta da alcune erbette che vengono contrabbandate in Polonia dalla Bielorussia. Gli chiedo se in futuro sono disponibili per un’intervista e uno di loro mi guarda con gli occhi stravolti: “Adesso?”. No, non adesso, caro il mio fattone, lo vedo che al momento non sei neanche in grado di ricordarti il tuo nome. Facciamo foto di gruppo, cazzeggiamo, ci diamo pacche sulle spalle e ci diamo appuntamento a dopo, perché adesso suonano i METHADONE SKIES, dalla Romania, che i miei sodali giurano essere molto carini. Dovete però scusarmi, cari fratelli del vero metal, ma non me ne ricordo una sola nota. Ho fatto indigestione di fette di torta insieme ai Belzebong e quindi sto lì, caracollo un po’ davanti al palco, vado a comprare una maglietta dei Belzebong, guardo i cd in esposizione, parlo dei Blind Guardian con una fan dei Blind Guardian, eccetera. Ma niente dei Methadone Skies rimane nel mio cervello, perdonatemi.

A questo punto ci sono i BLACK RAINBOWS, che avrò visto una dozzina di volte e che non si smentiscono mai. Grandi intrattenitori, ormai scafatissimi sul palco, i capitolini presentano l’ultimo album Hawkdope e speriamo di vederli al Roadburn l’anno prossimo, che cazzo. Non avete idea di quante volte quest’anno io e Ciccio ci siamo guardati in faccia, di fronte all’ennesimo gruppo scrauso nordeuropeo sui palchetti del Roadburn, e ci siamo detti “Ma a sto punto non era meglio che chiamavano i Black Rainbows?”. Organizziamo una petizione e spediamoli in Olanda l’aprile prossimo, direi che i tempi sono ampiamente maturi.

La serata volge al termine e sul palchettino dell’Orange salgono i BELZEBONG, che sorprendentemente riescono ancora a reggersi in piedi. Di tutto l’ampio spettro della cosiddetta musica per fattoni  loro fanno parte di quel sotto-sottogenere che preferisco, quindi mi piazzo in prima fila e rimango lì tutto il tempo. Scapocciano per l’intera durata del concerto, con un piccolo proiettore che manda spezzoni di vecchi film opportunamente montati a capocchia e colorati di verde. I pezzi sono tutti strumentali, e praticamente viene suonata tutta la discografia (cinque pezzi di tre quarti d’ora complessivamente) più, immagino, qualcosa dall’imminente Greenferno, che si preannuncia un disco della madonna sia perché sarà identico al precedente sia per il fatto che c’è una canzone che si chiama The UnderToker. Mi piazzo esattamente davanti agli amplificatori e questi per un’oretta abbondante ondeggiano avanti e indietro coi capelli davanti alla faccia al ritmo di un riff ogni dieci minuti e ogni riff fa più o meno VOMMMM VOMMMM VAVAVA VOMMMM con dei bassi che mi fanno tremare gli occhiali e dietro ste cazzo di immagini verdi di qualche film sperimentale degli anni Trenta, roba che se passassi anche solo mezz’ora al giorno così sarei la persona più felice e meno stressata del mondo. E a un certo punto mi guardo intorno e penso che a trentatré anni mi ritrovo qui, a Pescara, in un pub minuscolo, a sentire quattro cannabinomani capelloni su un palco di due metri per due che suonano VOMMM VOMMM a volumi inumani, con le orecchie che già fischiano, con i cinquanta arrosticini di pecora che mi risalgono nel cervello, in mezzo a personaggi assurdi tra cui il Masticatore che mi guarda e ride, un tizio vestito come don Juan Demarco maestro d’amore che si gira intorno spaesato, JU CINGHIALOTTU fermo immobile tutto incagnato dentro al collo che sembra non capire cosa cazzo stia succedendo, un altro che sembra uscito da un concerto di Vasco Rossi e probabilmente prima di entrare immaginava pure di assistere a qualcosa del genere, e io sono stanchissimo, distrutto, co sta birraccia calda da concerto in mano che non mi va più da un pezzo ma che continuo a bere perché è giusto così, e penso che senza tutto questo non sarei nulla. Sarei polvere. Le puzzole saranno pure antipatiche e fetenti, però alla puzzola sta benissimo così e se ti avvicini troppo non importa che tu sia orso o lince: quella ti spruzza zolfo liquido in faccia dal buco del culo. E il bello di tutto ciò è che non importa se il metal esaurirà ogni spinta creativa, o il rock stesso esaurirà ogni spinta creativa: quattro fattoni che suonano qualche riff dei Black Sabbath lentissimo e saturatissimo si troveranno sempre. Noi ci rivedremo sotto quel palco fino all’ultimo. Un grazie ancora a Davide che ha organizzato questa cosa fantastica.


Ecco a voi il nuovo video dei CRADLE OF FILTH, ma solo perché vi vogliamo bene

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backstreet’s back, alright!

Come abbiamo più volte ripetuto, noi vogliamo bene a tutti i nostri lettori e quindi teniamo in particolare considerazione le ragazzine col piercing al labbro, una fascia di pubblico che ci segue tantissimo perché spera che un giorno o l’altro pubblicheremo una foto di Michele Romani a petto nudo che spacca la legna. Aspettando che ciò accada, però, le intratteniamo col nuovo video dei Cradle of Filth, in cui c’è Dani vestito da personaggio di Tim Burton, un’estetica da sigla di Dexter, i soliti puttanoni e pure un batterista pelato che fa le faccette. Il batterista è quello dei Masterplan, giusto per capire di cosa stiamo parlando. Non ci sarebbe molto da dire perché è il solito pezzo degli ultimi Cradle of Filth, un thrashettone tupatupa con delle parti orchestrali orrorifiche ficcate in mezzo a viva forza e l’onnipresente voce di Dani Filth che non sta zitto un attimo tranne che per alternarsi con le parti di voce femminile. Il pezzo non è neanche orribile, è proprio che secondo me non ha senso di esistere; ma è un parere personale. Qui però sfidano la mia pazienza citando Queen of Winter Throned, uno dei loro picchi assoluti, dall’ep del 1995 Vempire, e un po’ di accanimento verrebbe pure. Però oggi mi sento buono, quindi farò finta di niente. Il pezzo si chiama Right Wing of the Garden Triptych ed è tratto dall’imminente nuovo album Hammer of the Witches. Buona visione, dai. 




cradleoffilthhammercdcover


Come and hear, Lucifer sings

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I Lucifer sono un gruppo formatosi dalle ceneri dei The Oath, da cui provengono la cantante berlinese Johanna Sadonis e il batterista inglese Andy Prestridge (anche negli attuali Angel Witch). La formazione è completata, tra gli altri, da Gaz Jennings, storico membro dei Cathedral dalla formazione fino al 2013. Noi li avevamo intravisti al Roadburn, e il loro doom settantiano vagamente blueseggiante ci aveva intrigato abbastanza. Il debutto, Lucifer I, uscirà fra pochissimi giorni; nel frattempo possiamo gustarci Izrael, il loro primo video, una bella canzoncina che aumenta le nostre aspettative. 


Avere vent’anni: NAGLFAR – Vittra

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Quando ho visto che sulla lista dei dischi usciti nel maggio 1995 c’era anche Vittra ho pensato che avrei proprio dovuto scrivere qualcosa. Sembra brutto dire perché questo disco se lo merita, dato che di sicuro un capolavoro del genere non ha alcun bisogno che io ne scriva due cazzate a supporto; però, per qualche imperscrutabile motivo, questo album non ha mai ottenuto la considerazione che merita, venendo relegato più che altro nell’infame definizione di disco di culto che, alla fine, ha finito per nuocergli.

Non si può dire che Vittra sia stato un fulmine a ciel sereno, sia perché raramente in musica qualcosa esce fuori dal nulla sia perché nella Svezia dei primi anni novanta le condizioni affinché un disco del genere potesse uscire c’erano eccome. Però, una volta uscito, questo disco ha cambiato per sempre il modo di intendere il black metal, o quantomeno ha spostato i confini che a quest’ultimo si era soliti dare. In questo senso Vittra può essere paragonato a The Somberlain: due dischi usciti fuori chissà come, e da chissà dove, e che hanno colpito il mondo della musica estrema europea come uno schiaffo in piena faccia.

Con questo disco il concetto di black metal melodico assume una forma concreta. Certo c’erano stati tentativi analoghi prima del 1995, ma niente che incarnasse letteralmente quella definizione. Vittra ha così tanti spunti da essere diventato uno degli album più influenti della scena estrema di metà anni novanta, anche se da un certo punto di vista è un tipico disco di metal estremo svedese di quegli anni, con tanto di breve intermezzo strumentale a metà scaletta e pezzi particolarmente ‘forti’ in apertura e chiusura (As the Twilight Gave Birth to the Night ed Exalted Above Thrones); e le stesse influenze maideniane si collocano benissimo in quel contesto, da Dismember e In Flames in giù. Probabilmente, il grande merito dei Naglfar è stato approcciarsi al black metal nello stesso modo in cui all’epoca i loro conterranei si approcciavano al death. 

Se consideriamo la scena norvegese come prima generazione del black metal (non tenendo conto quindi di Hellhammer e compagnia), con Vittra si può iniziare a parlare di seconda generazione. Non prendete questa affermazione come assoluta, ma è un modo di vedere la cosa. Nella propria musica, infatti, i Naglfar rigettano ogni reminiscenza punk per ribadire una saldissima tradizione metallara, con la più classica delle icone: gli Iron Maiden. Ecco: i Naglfar erano dei metallari nel senso letterale del termine; e, rispetto alle controparti norvegesi dell’epoca, per la generazione di metallari cresciuti negli anni 90 Vittra era più comprensibile; ci si poteva identificare meglio. Non è un caso che successivamente i Naglfar si siano buttati sul death metal, o comunque nell’indefinibile oceano del metal estremo, mentre i pionieri della scena norvegese abbiano fatto tutt’altre scelte, quantomeno nella maggioranza dei casi. Anche la produzione di Peter Tagtgren, pur lontana anni luce dal suono grosso e pulito che caratterizzerà le produzioni successive, compie comunque precise scelte di suono che segnano una profondissima frattura con la tipica attitudine norvegese o comunque del black metal primigenio.

Purtroppo i Naglfar non si ripeteranno più a questi livelli: i vari Diabolical, Sheol, Pariah sono dei buoni dischi, ottimi se li avesse scritti qualcun altro, ma distanti dal debutto tanto stilisticamente quanto qualitativamente. Vittra però rimane lì, insuperato, con una data d’uscita simbolicamente a metà degli anni novanta, quasi a spaccare il decennio tra un prima e un dopo. Rispetto ai Dissection, che proprio nel 1995 uscivano con Storm of the Light’s Bane (ma il cui vero capolavoro, non fosse altro che per essere venuto prima, è proprio The Somberlain), i Naglfar erano un gruppo metal più canonico, mentre la band di Jon Nodtveidt è rimasta per sempre uno splendido unicum fuori dal tempo e dallo spazio. L’enorme importanza di Vittra, però, rimarrà soprattutto inconsapevole: non saranno molti i gruppi che citeranno esplicitamente questo album tra le proprie influenze, magari citando altre band che, pur avendo avuto più fortuna dei Naglfar, devono molto o tutto a loro. Ma, volendo ripercorrere adesso la storia di quegli anni, è impossibile non riconoscere a Vittra la sua imprescindibilità. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)



Avere vent’anni: GAMMA RAY – Land Of The Free

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Signore e signori, il power metal tedesco. C’è chi potrebbe obiettare a questa affermazione tirando fuori i Keeper, che stanno al power come i Black Sabbath stanno all’heavy metal: sono venuti prima, sono tendenzialmente migliori di tutto ciò che è venuto dopo e hanno ispirato il genere al punto che non c’è praticamente nulla nel genere stesso che non possa essere ricondotto a essi; ma è Land of the Free il vero manifesto del power tedesco, la sua pietra angolare, il canone essenziale fatto da chi il genere prima lo ha inventato (vedi sopra) e poi si è preso il lusso di ritornarci su dopo aver provato a nobilitarlo e aver capito che non c’è nulla da nobilitare. Land of the Free rimarrà il lascito ai posteri dei Gamma Ray pur non essendo forse neanche il loro disco migliore; ma è quello che li rappresenta di più, essendo il ritorno di Kai Hansen come frontman dai tempi di Walls of Jericho e l’ultimo prima del cambio quasi totale di formazione: dopo questo disco Dirk Schlachter passò dalla chitarra al basso e subentrarono Henjo Richter alla chitarra e Dan Zimmermann alla batteria, cosa che li ha resi più quadrati e meno fantasiosi. Band-Land-of-Free-03 Land of the Free risulta tuttora più fresco rispetto ai successivi proprio perché mantiene ancora quell’ingenuità dell’era Scheepers, e al contempo è talmente pervaso dalla preponderante personalità di Kai Hansen da sembrare un nuovo inizio dei Gamma Ray, come se i tre dischi precedenti fossero opera di un altro gruppo. Da questo album si inizia a identificare la band con Kai Hansen; non dico come un suo progetto solista, ma quasi. Kai Hansen è come Ibrahimovic nel calcio: uno fortissimo ai livelli dell’alieno, ma che per funzionare dev’essere piazzato in un contesto in cui tutto gira intorno a lui, con gli altri componenti la squadra a fargli da piedistallo. Come disse Sconcerti, Ibrahimovic non è un giocatore: è uno schema. Ecco, Kai Hansen non è un semplice chitarrista né tantomeno un semplice cantante; e sicuramente può farti buoni assoli, o scriverti belle canzoni; ma tenerlo in formazione così, come se fosse un chitarrista qualsiasi, vuol dire tarparne le ali, utilizzarlo a un decimo delle sue potenzialità, castrarlo; esattamente come ridurre Ibrahimovic a semplice punta di sfondamento di quel Barcellona. Kai Hansen è uno di quei musicisti che hanno bisogno di tutto il palco libero per esplodere in tutta la propria magnitudine: e Land of the Free risolve l’equivoco dei primi tre dischi e ce lo restituisce come una delle ultime vere icone del metal europeo.  Band-Land-of-Free-04

Land of the Free è anche uno dei motivi principali per cui ascolto power metal. Se qualcuno mi chiedesse perché ascolti power metal? io gli farei sentire una decina di dischi tra cui questo. In metà dei suddetti dischi ci suona Kai Hansen, comunque. Land of the Free è power tedesco al suo meglio: cori stragonfi da cantare in piedi sul letto col pugno in aria e lo sguardo rivolto verso il cielo, climax da prendere a testate il muro, birra in lattina, doppio pedale da fare male alle orecchie, assoloni con fischi e tamarrate pericolosissimi da ascoltare in cuffia mentre cammini per strada perché è difficilissimo rimanere impassibile, eccetera. Immagino abbiate presente. In questo disco ci sono cose letteralmente allucinanti come Rebellion in Dreamland, l’inno generazionale di quelli rimasti sotto col power metal nella seconda metà degli anni novanta (per la quale fu girato un video molto più corto rispetto ai nove minuti originali); Farewell, la ballata con Hansi Kursch che molti di noi hanno pensato almeno una volta di far suonare al proprio funerale; The Abyss of the Void, che non ho mai capito perché non sia diventata un loro cavallo di battaglia; Man on a Mission, forse il grado zero del power tedesco; e la mostruosa titletrack, che non riesco MAI ad ascoltare stando fermo, soprattutto quando intorno al secondo minuto spara quella cosa indescrivibile che fa hold your ground and I’ll show you the way / hold your head up haaaaaHAHAAAIIIIIGH  che ti monta dentro e ti fa pompare il cuore a tremila con gli occhi che si gonfiano mentre ti senti in groppa a un drago a sputare in testa ai nemici del vero metal. La gente davvero non lo sa, cosa si perde. I Gamma Ray sono uno dei gruppi che più riesce a farti sentire in pace con te stesso e con il mondo, e se la gente li ascoltasse per mezz’ora al giorno probabilmente starebbero tutti più tranquilli e sorridenti. Invece ascoltano schifezze e infatti guardate un po’ che squallore che c’è lì fuori. Ma un giorno vinceremo noi, ne sono sicuro. Ne ho la certezza sin dalla prima volta che ho ascoltato Land of the Free: vinceremo noi; e il power metal prevarrà. Qualunque cosa ciò significhi. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)


ROTTING CHRIST // STIGMHATE @Traffic, Roma – 05.06.2015

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locandina di SavageArtworks

locandina di SavageArtworks

Questa volta volevo arrivare prima del solito per guardare almeno tre gruppi, ma non avevo fatto i conti con il magnifico autobus che parte dal capolinea dell’altrettanto affascinante e ben frequentata stazione di Ponte Mammolo. Di solito prendo quello da Largo Preneste, che già si sa in anticipo che fa schifo e quindi parti con mezz’ora di anticipo, però mi avevano detto che questa via era più rapida e quindi eccoci qua. Ho aspettato tre quarti d’ora in piedi a Ponte Mammolo e alla fine ho incontrato pure il piccolo Ciccio, che è uscito dal lavoro molto dopo di quanto io sia uscito da casa eppure ha finito per prendere il mio stesso autobus. Alla fine arriverò in tempo solo per gli ultimi due gruppi, perdendomi così Nerodia e Voron. Ricapiterà occasione.

Gli Stigmhate sono una vecchia conoscenza del metal estremo italiano, e usano tutta la propria esperienza per cercare di farci dimenticare, anche solo per cinque minuti, che di lì a poco suoneranno i Rotting Christ. È una missione molto complicata, ma nessuno potrà dire che non ci abbiano provato; e nei tre quarti d’ora a disposizione prendono a schiaffoni il pubblico con un suono spesso al limite tra black e death che comunque ha reso meno spasmodica l’attesa. Mi dicono che il chitarrista fosse nientemeno che Nicola Bianchi degli Handful of Hate, che da qualche tempo coadiuva la band vicentina in sede live: io non l’ho riconosciuto (se era davvero lui) perché non l’ho mai visto senza face painting, abbiate pazienza. Il suono è un po’ impastato, almeno dalle prime file, e questo spezza un po’ le gambe alla tecnica strumentale dei vicentini; un plauso al cantante/bassista che suonava senza plettro, causando i gongolii di Ciccio che è sempre contento quando vede qualcuno suonare il basso senza plettro.

Poi arrivano i Rotting Christ. Per togliersi il pensiero attaccano subito con due pezzi dall’ultimo Κατά Τον Δαίμονα Εαυτού (precisamente Χ Ξ Σ e P’unchaw Kachun), e per un attimo ci guardiamo tutti in faccia con il dubbio di aver capito male riguardo alla scaletta incentrata sui primi dischi. E invece è tutto vero: dopo i doveri promozionali ci si tuffa nella serata-amarcord con The Old Coffin Spirit e The Forest of N’gai, che iniziano a far sbarellare un po’ di gente. The Sign of Evil Existence dà il via agli estratti da Thy Mighty Contract: io raggiungo la prima fila e rimango là tutto il tempo, estasiato, con le varie Transform All Suffering into Plagues ed Exiled Archangels che mi passano attraverso facendomi passare davanti agli occhi gli ultimi vent’anni di vita, tutte le volte che ho ascoltato Thy Mighty Contract in cuffia mentre andavo al liceo, tutte le volte che ho battuto con la mano il tempo di Visions of the Dead Lover  mentre seguivo una lezione all’università, tutte le volte che ho rischiato di spaccarmi la testa su qualche spigolo facendo air guitar su Archon, eccetera. Avevo un poster dei Rotting Christ in cameretta ed è davvero una fortuna che nessuno della mia famiglia conoscesse a sufficienza l’inglese né avesse la malizia necessaria per capire che cosa ci stesse scritto. 

così.

così.

Suonano tutti i vecchi pezzi che suonano di solito, da King of a Stellar War alla cover dei Thou Art Lord, ma in più fanno cose che mai avrei sognato di sentire dal vivo, tipo la suddetta Visions of the Dead Lover che ha uno dei tempi di batteria che più mi ha intrippato in vita mia, o The Fifth Illusion, rendiamoci conto. I primi dischi dei Rotting Christ mantengono tuttora quell’odore di polvere umida, di negozi di dischi di seconda mano, innocenza e ingenuità; ci senti un gruppo con potenzialità enormi con mezzi infimi e penalizzati da una mostruosa lontananza dalla scena, che li porta quindi ad approcciarsi ad alcune cose in modo singolare. I Rotting Christ sono uno dei pochissimi gruppi al mondo ad avere sbagliato così poco, osando così tanto, nell’arco di undici album: potrebbero suonare praticamente qualsiasi cosa e sarebbe comunque un concerto epico, ma così è davvero un tuffo al cuore. Anche perché di solito queste operazioni di ripescaggio vengono da gruppi bollitissimi a cui proprio non va di trovarsi un lavoro serio, mentre i fratelli Tolis sono serissimi ancora adesso, in preda a un furore creativo che non li abbandona dal 1989, e che se qualche volta lo ha fatto è stato giusto per andare al gabinetto un secondo. Questi continuano a fare dischi meravigliosi, non ne fanno mai uno uguale a un altro e oggi sono qui con noi (e non davanti a noi), nell’ambiente familiare del Traffic, con gente che quasi si mette a piangere a sentire certe canzoni, e sembrano davvero i tizi con cui ti identificavi da ragazzino. Sono sempre loro, nulla pare cambiato. Sakis Tolis è proprio il tizio che vorresti come amico per andarci insieme ai concerti con le lattine di birra del discount nel portabagagli. Ogni volta che ci ho parlato sembrava di stare con il cugino grande che ti faceva le musicassette da piccolo; e tutto questo traspare anche dalla loro musica, sempre sperimentale e mai supponente, neanche per un secondo; e così pure i loro concerti sono tra i migliori a cui io abbia assistito. Onore a chi c’era, vagonate di merda addosso a chi non c’era. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)


XXI AGGLUTINATION @Chiaromonte (PZ), 09.08.2015

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We never cry for pain, we’re superheroes
We are back where we belong

Se il metallaro terrone non va all’Agglutination o non è un vero metallaro o non è un vero terrone. Mi dispiace Charles, ma così stanno le cose. Come diceva Joey DeMaio ”credetemi: questa è la verità”. Quest’anno si ritorna addirittura nella primordiale location di Chiaromonte, abbarbicata su una montagnola a ottocento metri sul livello del mare, in quel particolare angolo di Basilicata dove la densità di popolazione è circa una persona ogni dieci chilometri quadrati, con paesini di duemila abitanti separati da distese infinite di boschi, cinghiali e strisce d’asfalto che attraversano questo nulla sconfinato che sembra che ti guardi malmostoso, tu forestiero che ci passi in mezzo e non hai alcun motivo di essere qua. La Basilicata ha gli occhi. L’Agglutination si svolge in una zona così lontana da qualsiasi altra cosa che per arrivarci hai fondamentalmente tre opzioni: 1-macchinata 2-pullman organizzato 3-mezzi pubblici locali. E credetemi che tutte le suddette opzioni sono parecchio heavy metal. Io sono dieci anni che ci vado in macchina insieme al Messicano e al nostro affezionato compare Roberto Mancini, ma il mio primo Agglutination fu un’epica e maligna odissea della sfiga coi mezzi pubblici all’andata e il pullman al ritorno. Il più immediato corollario di tutto ciò è che se sei un habituè dell’Agglutination stai sicuro che nel Valhalla c’è già il posto riservato con il tuo nome scritto sopra.

Quest’anno si ritorna a Chiaromonte, ma non nel mitologico cortile della scuola media delle prime edizioni, bensì nel più umano campo sportivo, dove c’è l’erbetta e tutto è molto ordinato e carino. Purtroppo però ha piovuto per un paio d’ore nel primo pomeriggio, quindi le scarpe fanno cic-ciac, come nella legge di Gay-Lussac. Ci sono ampi teloni nella zona davanti al palco, fortunatamente, altrimenti nel pantano che si sarebbe formato ci avremmo trovato pure gli alligatori. Non che a noi cavalieri templari del vero metal gli alligatori facciano paura, eh, però insomma. Comunque l’edizione 2015 sarà per sempre ricordata per la ventina di immigrati africani che si aggiravano confusi per l’area del festival. Sì, ecco, come dire. Non saprei neanche da dove cominciare per spiegare la surrealtà della situazione. 

A quanto mi è stato riferito da un autoctono, parrebbe che questi siano ospiti di un centro di accoglienza lì vicino, gestito da suore che per qualche motivo gli hanno permesso di andare all’Agglutination a sentire la musica del demonio insieme agli uomini bianchi coi capelli lunghi e la panza. Era chiarissimo che questi non avevano la minima idea di dove si trovassero, del perché intorno a loro stesse succedendo quel che stava succedendo, del perché la gente si vestisse così male e portasse quei brutti capelli lunghi, ma soprattutto era chiarissimo che questi non avevano mai sentito neanche lontanamente qualcosa del genere in vita loro. Noi siamo arrivati piuttosto presto (non abbastanza per ascoltare ARTHEMIS, FELINE MELINDA e CARTHAGODS, però) e abbiamo potuto osservare lo sviluppo del loro comportamento e della loro interazione con l’ambiente esterno.

Il primo gruppo che vediamo sono dunque i FORGOTTEN TOMB, che immagino siano stati gli unici a essere contenti della pioggia. In teoria, assecondando il loro immaginario, i piacentini dovrebbero suonare in uno scantinato pieno di siringhe usate e con la puzza di piscio, merda e morte che ti rivolta le budella, ma, in mancanza di meglio, suonare sotto la pioggia in mezzo ai boschi in montagna è uno scenario che ti risolve sempre la situazione. Purtroppo il suono non rende loro giustizia; però tengono bene il palco, e per qualche motivo sembrano essere a proprio agio nella dimensione open-air diurna, molto di più di quanto il genere e il loro immaginario possano lasciar credere. Nel frattempo gli immigrati tendono ancora a girare in piccoli gruppi, senza allontanarsi troppo, ché non si sa mai quello che può succedere nella testa dei capelloni bianchi vestiti fuori moda. Questi magari tre mesi fa vivevano in una capanna o in chissà che situazione assurda dell’Africa equatoriale, poi rischiano l’osso del collo per venire qua, stanno dei mesi in un collegio di suore di Chiaromonte provincia di Potenza, e poi di botto vengono catapultati a sentire il depressive black metal. Non riescono neanche a muoversi a ritmo della musica, perché non hanno mai sentito prima nulla del genere. Qualcuno inizia a fare foto con lo smartphone. Ognuno di loro ha uno smartphone. Avrei pagato per sapere a cosa stessero pensando in quel momento.

I prossimi in scaletta sono i NECRODEATH, che non vedo da parecchi anni. Sono qui per festeggiare il trentennale, o giù di lì, e ripercorrono tutta la loro carriera con grande gioia degli astanti. In ogni festival dovrebbe esserci un gruppo slayeriano, altrimenti è come se mancasse qualcosa; si potrebbe chiamare la quota-Slayer o che so io, ma è una cosa che dovrebbe essere proprio specificata in locandina. L’altra cosa che dovrebbe esserci in ogni festival è una cover degli Iron Maiden, ma a quello penseranno parzialmente gli Edguy più tardi. Il gruppo di Peso e Flegias prende possesso del palco come se ci fosse il proprio nome scritto sopra, e nonostante qualche mancanza nella scaletta (The Creature, Red as Blood) esce a testa altissima dal confronto con gli altri gruppi prima e dopo di loro. Concluderanno la serata al chiosco delle birre, scambiando chiacchiere con i convenuti.

mica fagioli

mica fagioli

Il primo di quelli che a Sanremo si chiamerebbero ospiti internazionali sono gli INQUISITION, un nome che mi ricorda i numeri di Grind Zone degli anni novanta, nei quali se ne parlava con grande deferenza. Da allora tutto è cambiato, tranne gli Inquisition. Purtroppo non piove più, il che avrebbe valorizzato la loro performance, ma il duo colombiano viaggia a tremila come se niente fosse. Per qualche motivo ho pensato che starebbero bene al Roadburn. Non so se fosse della mia stessa opinione l’immigrato in maglietta bianca coi cuoricini che improvvisamente ho ritrovato a pogare sotto al palco: l’ho osservato per un po’ e mi sono accorto che riproduceva perfettamente i movimenti degli altri, senza fare niente di azzardato, che in quei frangenti potrebbe diventare pericoloso; per questo motivo si è mimetizzato perfettamente nella massa di uomini bianchi con le magliette brutte che si sbattevano su e giù per il pit. Chiaramente mi ci sono fiondato anche io, così che un giorno io possa dire ai miei nipotini che una volta ho pogato con un immigrato africano ad un festival metal sui monti lucani.

Gli EDGUY sono l’unico gruppo non estremo presente in scaletta, quantomeno oltre agli Arthemis. In questi casi c’è sempre un flebile rischio che qualche sveglione si metta a contestare, ma con Tobias Sammet di mezzo è praticamente impossibile che succeda. Lui la voce l’ha persa qualche secolo fa, ma non ha mai abbandonato quell’attitudine da intrattenitore di villaggio turistico che è perfetta per chi se li trova davanti a un qualche festival senza averli mai sentiti prima, o per chi magari non apprezza il power metal tetesco omosessuale. Peraltro sono qui per sostituire gli Angra, che hanno decisamente un altro tipo di approccio. Rispetto all’ultima volta Tobi non è in formissima, ma di sicuro pure stavolta qualche simpatizzante l’avrà guadagnato. Persino il Messicano alla fine mormorerà tra i denti un “beh dai, carini” che suona come un lasciapassare definitivo per la gloria. I pezzi dagli ultimi due trascurabili album ci sono, ma i vecchi cavalli di battaglia sono immancabili: Vain Glory Opera, King of Fools, Lavatory Love Machine, Tears of a Mandrake, Superheroes. Come al solito il finale di Babylon diventa un’occasione di cazzeggio senza soluzione di continuità, in cui Sammett canticchia tutte le canzoni italiane che gli vengono in mente, da Umberto Tozzi alla Nannini, oltre a un accenno di The Trooper che viene accolto con il boato più grande dell’Agglutination 2015. Per introdurre Save Me dice “è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo: ecco a voi la prima e l’ultima pussy-ballad dell’intero festival”. La classe non è, decisamente, acqua.

Gli OBITUARY sono diventati, anche fisicamente, come il loro suono di chitarra: grassi, brutti, vecchi, sporchi e lenti. NOSTRI più che mai. Per me sono morti nel 1997 con Back From The Dead, il che è una bellissima morte; dopo la reunion hanno perso completamente l’atmosfera malata dei primi cinque album, ma rimangono sempre il classico gruppo che dal vivo rende sempre al massimo, e anche i nuovi pezzi sembrano avere più senso, ascoltati così. Purtroppo non hanno suonato Chopped in Half e neppure Threatening Skies, che durante il viaggio di andata in macchina avremo ascoltato circa quaranta volte, ma in sede live le già lievissime differenze stilistiche tra le varie canzoni tendono ad annullarsi, così che un concerto degli Obituary è sempre un concerto degli Obituary a prescindere dalla scaletta. In questo oggi sono aiutati dal suono nitido e potente, difficile da sentire in un festival all’aperto, e che del resto è uno dei punti di forza dell’Agglutination da parecchi anni a questa parte. In più John Tardy e compari ci mettono tutta la propria esperienza, come al solito, e a noi basta e avanza abbondantemente. Chissà se anche gli amici del centro di accoglienza sono della mia stessa opinione. Un saluto a loro, all’immortale Gerardo Cafaro (che il Capro ce lo preservi a lungo e in salute), a Erica che ha avuto il suo battesimo del fuoco, a Carmelo che mi ha rivelato che il prossimo 22 agosto suonano i Folkstone gratis in piazza nell’irraggiungibile Latronico (evento ai cui partecipanti verranno elargiti mille punti-Valhalla a testa), a Consalvo che appena è scattata Babylon l’ho perso ed è probabilmente morto sotto il pogo oppure offerto in sacrificio dagli africani al primordiale dio-cinghiale il cui culto è tuttora mantenuto vivo su certe montagne del potentino, e a tutti i convenuti. Tutti gli altri da Frosinone in giù, come ogni anno, non hanno alcuna giustificazione. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)


Avere vent’anni: THE GATHERING – Mandylion

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Se Avere vent’anni è una rubrica di ricordi personali, perlopiù, allora non potrei mai parlare di Mandylion senza fare una lunga tirata sul mio amore adolescenziale per Anneke van Giersbergen, che però ho già espresso qui, quindi cercherò di non ripetermi troppo. Scoprii Mandylion dopo essere stato folgorato da Nighttime Birds, che per come è piombato nella mia formazione musicale ha cambiato il mio modo di intendere un certo tipo di metal, o comunque mi ha arricchito di una prospettiva nuova da cui vedere la questione. In Mandylion il retroterra metallaro dei The Gathering non solo era ancora riconoscibile, ma era strutturale al punto da renderlo uno dei dischi-cardine del movimento gothic metal di metà anni novanta; che sia uscito nello stesso mese di The Silent Enigma è una coincidenza che a vent’anni di distanza potrebbe assumere un valore quasi millenaristico solo agli occhi di chi non ha ben presente che cosa stesse succedendo in quegli anni, da quel punto di vista. Il gothic metal era diventato un movimento musicale ben preciso, con dei gruppi-guida e un primordiale codazzo di vari imitatori che già iniziavano a dividere il genere in sottogeneri spesso sovrapposti tra di loro: Mandylion può considerarsi tra i dischi fondamentali sia del gothic con voce femminile sia del cosiddetto Century Media sound e, per quanto pedanti suonino adesso queste definizioni, era all’epoca impossibile non trovarle in una qualsiasi recensione o discussione intorno al suddetto album; col senno di poi, però, è più facile riconoscere già in Mandylion i germi di ciò che sarebbe venuto dopo: considerando chi all’epoca veniva considerato loro compagno di genere (dai suddetti Anathema ai Theatre of Tragedy) ci si può spingere ad affermare che già qui i The Gathering suonassero in ultima analisi un metal psichedelico più che gotico, anche se di quest’ultimo conservavano strumenti e forma. A differenza dei Tiamat, per cui la psichedelia fu uno svarione che lasciò poche conseguenze, per i The Gathering il gothic fu semplicemente un mezzo, probabilmente l’unico che conoscevano o l’unico che gli veniva spontaneo usare, per comunicare le stesse cose che poi comunicheranno con How to Measure a Planet, probabilmente il loro disco più compiuto, anche se forse non il più significativo. Il successivo ammorbidimento del suono, che dopo Nighttime Birds si allontanerà dalle sonorità metal di colpo, avverrà in contemporanea con l’abbandono del chitarrista Jelmer Wiersma, così da far credere che fosse quest’ultimo il metallaro della band; al contrario pare che lui fosse addirittura il meno metallaro di tutti, tanto che dopo la separazione dai The Gathering non suonerà più in nessun altro gruppo metal. 

Poi c’è l’argomento principe, quello intorno a cui si gira senza affrontarlo direttamente per non sembrare scontati: Mandylion, e in generale i primi dischi dei Gathering, sarebbero ugualmente belli senza Anneke alla voce? La risposta è no, decisamente no, e in questo caso la banalità non sarebbe nel porsi questa domanda ma nel non sapersi dare una risposta, o nel dare una risposta cerchiobottista, diciamo così. La risposta invece è no. Tralasciando l’importanza storica, Mandylion è un disco splendido, composto da otto canzoni splendide, ma che con una qualsiasi altra cantante non sarebbe la stessa cosa. Il colpo di fortuna che hanno avuto i fratelli Rutten a trovare dal nulla questa sconosciuta ventunenne non-metallara, e a convincerla a cantare per il proprio gruppo, è il classico treno che passa una volta nel corso di mille vite. Strange Machines è una bella canzoncina con un bel riff e un bel ritornello allegrotto, ma cantata a quel modo diventa grossomodo un capolavoro; e canzoni già di base meglio riuscite come le due In Motion, con questo meccanismo, diventano frammenti di perfezione da portarsi nel cuore finché questo continuerà a battere. Non c’è mai stata, nel metal, una cantante femminile del respiro di Anneke. La sua voce era la voce degli angeli. Ma di questo, come detto, ho già parlato. E non è il caso di parlarne ancora più di tanto, perché l’ingenuo fascino di Mandylion , a differenza di molti più cerebrali gruppi gothic metal dell’epoca, è talmente immediato e fiabesco che una disamina troppo approfondita potrebbe avere l’effetto di squarciare il pallone per capirne il rimbalzo. Quindi ascoltiamo, senza porci troppe domande. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)


Questa non è una recensione di The Book of Souls

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Puntualmente a ogni nuova uscita degli Iron Maiden mi segnalano una serie di perle da forum e gruppi facebook di fan degli Iron Maiden, che uno all’inizio pensa “Anche io sono fan degli Iron Maiden, questi ritrovi virtuali non potranno essere poi così male”, e invece col cazzo. Per qualche motivo pare che i Maiden attirino una gran quantità di gente messa malissimo che interpreta la cosa un po’ troppo seriamente, contribuendo a costruire lo stereotipo di una categoria di fan simile a quelle di Bruce Springsteen, degli Oasis, dei Pink Floyd o di Vasco Rossi: gente convintissima che la musica inizi e finisca con quella partorita dai propri beniamini, che sono musicisti con ancora tantissimo da dire e i cui prossimi dischi saranno sicuramente all’altezza di quelli storici; della qual cosa peraltro si discuterà copiosamente nelle conventicole virtuali di cui sopra. Questa gente riesce a prendere sul serio anche le interviste della band stessa, e quando l’anziano cantante o chitarrista di turno dichiara “Crediamo veramente molto in questo album. Lo abbiamo creato con l’anima, ricreando un feeling che non provavamo dai tempi del 19XX, e crediamo sia il migliore che abbiamo mai composto” mica pensano che sta sparando una cazzata, o che ormai è un bolso borghesuccio vegetariano che gioca a golf e non racconta barzellette sessiste per non offendere il ruolo della donna nella società: lo prendono sul serio. Tutto ciò, ripeto, è molto strano, perché io ho frequentato molto intensamente i forum metal per oltre quindici anni (sempre al fianco del miserabile Carrozzi, peraltro) e la categoria di fan degli Iron Maiden non esisteva perché, vedi un po’! si era tutti fan degli Iron Maiden.

Ad esempio esistevano i fan dei Metallica, soggetti piuttosto borderline e molto simili alla descrizione qui sopra: ed esistevano perché mica si era tutti fan dei Metallica post-anni ottanta né tantomeno disposti a berci qualsiasi stronzata pronunciata dal fanfarone danese o a giustificare la sua crociata contro Napster, quindi in qualche modo loro si differenziavano. All’epoca c’era Lars Ulrich che diceva che St. Anger sarebbe stato “un ritorno al thrash”, un “incrocio tra Meshuggah ed Entombed” (testuale); e c’erano quei soggettoni che lo prendevano sul serio mentre tutti gli altri, giustamente, li schernivano. Poi il disco è uscito, si è rivelato essere ben oltre i più bui timori e i suddetti fan dei Metallica riuscivano a parlarne, a scrivere dite quello che volete ma a me sta cominciando a piacere XD e tutti gli altri, giustamente, li schernivano. Aveva dunque senso la categoria di fan dei Metallica, perché costituiva una minoranza di fanatici assolutisti presi a male che tendevano a fare gruppo tra di loro, così da poter parlare tranquilli di Reload senza che nessuno li schernisse. Ma mai nessuno, da che io ricordi, ha mai interpretato il personaggio di fan degli Iron Maiden nello stesso senso descritto sopra. Perché i Maiden non avevano ancora tirato troppo la corda, diciamo così, e per tutti i metallari, nonostante tutto, rappresentavano ancora una cosa molto simile a quella che rappresentavano quando eravamo piccoli. Forse è per questo che la categoria è venuta fuori adesso, anzi sì, dev’essere proprio questo il motivo. 

Quindi immaginatevi la reazione di certi personaggi alla recensione di Carrozzi in cui quest’ultimo sostiene non solo che The Book of Souls fa schifo, ma anche che è assurdo che ci sia così tanta gente ancora disposta a regalare soldi agli Iron Maiden nel 2015 comprandosi ogni disco, live, raccolta, videogioco o ammennicolo su cui ci sia stampato il nome IRON MAIDEN sopra. A parte il giudizio sul disco (per me è solo noioso e a tratti fastidioso, ma non fa schifo), a parte il giudizio sul disco, dunque, non è che Carrozzi abbia tutti i torti. Cioè, ha centrato il punto: non si tratta neanche tanto di farsi piacere gli ultimi loro dischi quanto il prendere tutto così sul serio; il non capire che un conto è trattare a quel modo Piece of Mind (o Symbolic, o Defenders of the Faith, o Hell Awaits), altro conto è parlare così di Book of Souls ; il blocco mentale di non riuscire a trattare gli Iron Maiden per quello che sono, ovvero un gruppo creativamente finito dal 1987 e che, dopo un rigurgito di dignità con l’esperimento-Blaze (peraltro finito nel peggior modo possibile, da parecchi punti di vista), ha sempre pubblicato dischi a scadenza regolare, per esigenze commerciali, e che peraltro è diventato una multinazionale con introiti mostruosi che probabilmente nessun altro gruppo metal al momento può sognarsi di raggiungere. Hanno questi introiti mostruosi perché fanno la migliore musica del mondo? Ovviamente no, altrimenti Justin Biberon sarebbe il più grande cantante degli ultimi dieci secoli: hanno questi introiti perché sono un’azienda di cui Steve Harris è presidente e amministratore delegato, e noi siamo il target di mercato. Sono più o meno questi i termini in cui parlare di gruppi come i Maiden, o gli Slayer, o i Dream Theater, eccetera. Quindi farsi il travaso di bile perché un pelato de L’Aquila ha parlato male dell’ultimo dischetto prodotto in serie dagli Iron Maiden mi sembra grottesco e deprecabile quanto accoltellarsi per un parcheggio in centro. Io quando leggo di due che si sono accoltellati per un parcheggio penso sempre: “Eh, che trimoni”.

Però vorrei discutere anche della cosa che più mi sconvolge in queste periodiche alzate di scudi in difesa dell’onore del proprio gruppo preferito: il concetto di INVIDIA. Non ti piace il nuovo disco del mio gruppo preferito? Sei invidioso. Con il corollario: non ti piace il demo del mio gruppo? Sei invidioso. Ma scusate, invidioso di che? Non l’ho mai capito. Lo capirei se si stesse parlando, non so, di Dan Bilzerian; ma degli Iron Maiden perché dovrei essere invidioso? Esistono milioni di gruppi musicali a sto mondo, perché dovrei essere geloso proprio degli Iron Maiden? Per essere invidioso dovrei, quantomeno, essere in competizione con gli stessi. Ho forse io un gruppo musicale? Suono forse io uno strumento? E anche se fosse, quale sorta di testa bacata e piena di candeggina potrebbe mai pensare di mettersi in competizione con gli Iron Maiden? Soggetti borderline da sit-com americana, orsù ditemi: di cosa esattamente dovrei essere invidioso? Perché dovrei essere invidioso degli Iron Maiden e non, boh, di un altro gruppo a caso? E perché questa invidia ce l’ho solo per i loro galattici ultimi dischi, mannaggia, e non per Powerslave? Com’è questo fatto, ditemelo voi amici! Secondo il vostro ragionamento, e invoco i Grandi Antichi dal loro sonno nelle profondità spaziali affinché possano risucchiarvi l’anima se non mi rispondete, secondo il vostro ragionamento dunque io non dovrei ascoltare NIENTE, visto che potrei essere geloso anche dei Gamma Ray o dell’ultimo gruppo scrauso che suona alle 8 di sera al Sinister Noise in apertura a qualche tossico giapponese alle soglie dell’overdose. Dai, mortacci vostra. Che noi tutti gli Iron Maiden li si è amati da sempre e li si amerà per sempre, che abbiamo polverizzato intere foreste per tutti i poster che abbiamo appeso in camera, e non ci saremmo mai sognati di disertare un loro concerto nel raggio di quantomeno 300 chilometri di distanza. E con ‘noi’ non intendo noi di Metal Skunk, intendo noi metallari nati tra il 1970 e il 1990 (suppongo). Come potremmo mai essere invidiosi degli Iron Maiden? Possiamo essere delusi, affranti, rassegnati per il loro tristo declino; ma invidiosi?

Il Maracanà dedica poi la sua ola più fragorosa a quei soggetti che hanno trasportato il concetto di HATERS dal mondo del rap al mondo del rock. Bravi, bravi. Un concetto intelligente, una cosa intelligente da dire. Un bellissimo mondo, peraltro, quello del rap. Pieno di gente intelligentissima, con tante cose intelligenti da esprimere. Tanto tempo fa, quando fiumi di latte scorrevano dalle montagne e gli alberi erano fatti di cioccolato con le nocciole, se i bimbi dicevano una cosa stupida i genitori mollavano loro un piccolo manrovescio sulla bocca, non molto forte ma neanche pianissimo, affinché il fanciullo la prossima volta pensasse meglio alle parole da pronunciare e non diventasse, da adulto, un coglione. Ecco: se un giorno mio figlio, in una discussione del genere, usasse la parola haters in questa stessa accezione, io mi ritroverò costretto a dargli un piccolo buffetto sulla bocca, non molto forte ma neanche pianissimo,così che da grande possa avere qualche chance di non diventare lo scemo del villaggio. Non mi dilungo oltre perché l’idiozia del concetto di haters, così come usato in questo contesto, spero sia evidente e immediato per tutti.

La mia opinione sul disco in sé è che è noioso e a tratti fastidioso, come già detto. Noioso perché mi sembra la solita sbobba riscaldata degli Iron Maiden da un po’ di anni a questa parte, e fastidioso sia perché troppo lungo sia per la peggior prestazione vocale della carriera di Bruce Dickinson, che si sforza perennemente di tenere tonalità altissime che non riesce più a tenere, tanto che il primo moto è di tenerezza nei suoi confronti e il secondo, e definitivo, è di fastidio perché non posso stare un’ora e mezza a sentire a te che ti strozzi per fare la caricatura di quello che eri e che, nei nostri cuori, comunque continui a essere. Ti vorremo sempre bene, Bruce Bruce, anche se certe volte ti comporti un po’ da borioso inglesotto pizzarrone. Prestazione vocale a parte i buoni spunti qua e là ci sono, ma non sono mai niente di eccezionale e purtroppo galleggiano in quest’ora e mezza di mattone di disco. La meno peggio è The Red and the Black: è il pezzo più vicino a The X Factor, che è del 1995, e forse lo hanno chiamato così perché volevano ricordare di quando il Milan era forte. Non mi dilungherò oltre sul disco sia perché lo ha fatto già Charles sia perché è su Spotify da settimane e l’avrete già ascoltato tutti fino alla nausea. Se non l’avete fatto, comunque, non vi state perdendo niente.


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